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mercoledì, settembre 13, 2006

Il terrore rosso in presa diretta

di Paolo Granzotto - «Lo stalinismo e la sinistra italiana» di Zaslavsky spiega quali furono (e sono) le radici del successo dell'ideologia comunista

Avendo vissuto lo stalinismo, Victor Zaslavsky non ne parla solo da storico qual è. Molte pagine del suo ultimo libro, Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori, pagg. 275 euro 17,50), sono autobiografiche e ricordano che cosa significava, anche nelle piccole faccende quotidiane, fare i conti con una tirannia che in Italia suscitava -e in parte suscita tuttora- «manifestazioni di ammirazione quasi patologiche». Mentre da noi l'Urss veniva esaltata come il regime «più libero di tutti», mentre milioni di «compagni» inneggiavano a Stalin, i cittadini sovietici, e Zaslavsky fra questi, conoscevano «la sensazione di agghiacciante paura alla vista dei furgoni neri della polizia, noti come "Marussia nera" o "corvo nero", in cui trasportavano gli arrestati o i detenuti, paura che saliva al grado di terrore paralizzante alla vista dei furgoni bianchi con la scritta "Carne" che verso la fine degli anni Quaranta furono utilizzati per lo stesso scopo. L'espressione corrente era "essere preso". Significava essere non solo arrestato o condannato, imprigionato o addirittura fucilato, ma tutte queste cose insieme. Chi era "preso" spariva nel nulla».

CONTROLLI SUI «COMPAGNI»
Quello era lo stalinismo, «infinita violenza inflitta in tutti noi che si rifletteva in una paura viscerale, instillata quotidianamente». Riprendendo una domanda dello storico americano Mark Lilla, Zaslavsky chiede: cosa può aver indotto pensatori e scrittori a giustificare le azioni di un tiranno e a negare qualsiasi differenza sostanziale tra quella tirannia e le società dell'Occidente libero? Cosa può aver indotto Luigi Longo a dichiarare alla Camera dei Deputati: «Anche a un esame sommario, il regime sovietico appare senz'altro come il più popolare, il più democratico, il più libero di tutti»? O Rossana Rossanda a sostenere che i meriti dello sviluppo stalinista, i benefici dell'alfabetizzazione e dell'industrializzazione pesano più delle vite di qualche milione di vittime? O Domenico Cacopardo a scrivere sull'Unità, riferendosi allo stalinismo: «Un processo rivoluzionario non può essere giudicato dal numero delle vittime, una dalla qualità dei suoi ideali e dagli effetti che ha prodotto nel mondo»? Se il dominio stalinista all'interno dell'Urss, scrive Zaslavsky, «fu basato anzitutto sul tenore, sull'eliminazione fisica di ogni opposizione politica e ideologica, reale o potenziale e, soltanto in secondo luogo, sul monopolio ideologico», il controllo stalinista sul Pci e i partiti alleati «era determinato principalmente dal potere dell'ideologia, rafforzato dal prestigio dell'Unione Sovietica vittoriosa e sostenuto da cospicui finanziamenti». Ma questo non basta a spiegare la fede cieca, la mobilitazione permanente, il furore dell'intolleranza ideologica, la devozione quasi animalesca al partito, l'esaltazione -l'estasi, si potrebbe dire- che caratterizzava (e caratterizza tuttora) i seguaci dello stalinismo. Possono aiutare queste righe scritte da Xenia Sereni, moglie di Emilio, direttore di Critica marxista, comunista ortodosso che al tempo della rivolta ungherese si schierò dalla parte dell'Urss: «Il partito si è fuso con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Spiega Zaslavsky che «partendo dall'estremo razionalismo e pragmatismo della dottrina marxista-leninista si arriva al totale irrazionalismo, alla reificazione del partito, percepito non come entità astratta bensì come "essere" dotato di volontà, di ragione e di chiara comprensione dei propri interessi». Da qui il «monoideismo rivoluzionario», cioè la concentrazione totale sull'idea della rivoluzione e sulla propria predestinazione messianica, il dinamismo e l'«avanguardismo» che si manifestava nell'ininterrotta corsa in avanti, nel «rifiuto dei comuni sentimenti umani» e nella dedizione al compito esclusivo della lotta per la liberazione sociale». Grazie alla seppur parziale disponibilità degli archivi del Kgb e del Gru, Zaslavsky ha potuto affinare le ricerche su quegli anni e sugli uomini che abbracciarono e promossero lo stalinismo. Il risultato sono pagine assai interessanti sui rapporti fra il Cremlino e il partito socialista di Nenni; sulla crisi fra Stalin e Tito e le sue ripercussioni in Italia; sull'apparato paramilitare del Pci (la così detta «Gladio rossa», a proposito della quale Zaslavsky annota: «La presenza all'interno di uno stato democratico di una organizzazione armata di massa non soltanto schierata con una potenza straniera, ma capace di ricorrere all'insurrezione -e presumibilmente in certe condizioni pronta a farlo- fino a scatenare una guerra civile, è un fenomeno unico nella storia dell'Europa occidentale del dopoguerra); sui rapporti tra Cremlino e Botteghe Oscure alla vigilia delle elezioni del '48 con l'opzione della insurrezione armata; sui finanziamenti sovietici al Pci (svariati milioni di dollari l'anno. Accusa alla quale le sinistre rispondono con un ritornello sempre uguale: la Dc prendeva i soldi dagli Stati Uniti. Ma come rileva Zaslavsky «i finanziamenti per favorire il regime democratico plutipartitico e quelli per instaurare un regime monopartitico dipendente dal sistema totalitario richiedono una valutazione storica completamente diversa») e alla stampa comunista. Ne trasse vantaggio principalmente l'Unità, ma ne beneficiò anche Paese Sera, Il Nuovo Spettatore di Antonio Tatò (la cui redazione, si legge nella nota di pagamento del Politburo, «svolge una vibrata critica alla politica degli Stati Uniti e alla posizione proamericana di vari politici d'Europa»), Orizzonti che, sempre a giudizio del Politburo, «pone tra i suoi scopi principali una presentazione obiettiva della situazione nell'Urss». A tenere le fila dei finanziamenti era Armando Cossutta, il quale non si limitò a sollecitarli per i giornali, ma anche, come risulta da una serie di documenti d'archivio, chiedeva a Mosca, ottenendolo, «che il Pci venga aiutato all'addestramento di istruttori e specialisti in comunicazioni radio, messaggi in codice, tecniche di camuffamento e di travestimento». Uno dei capitoli più notevoli è dedicato allo «stalinismo di ritorno», ovvero al ruolo -sul quale gli archivi gettano nuova luce- di Palmiro Togliatti nella rivolta ungherese del 1956. Krusciov, come è noto, era indeciso sul da farsi e in soccorso dei falchi del Cremlino giunse Togliatti che inviò due telegrammi cifrati «rivolgendo inaudite critiche ai dirigenti sovietici, rimproverandoli per le divisioni interne e per l'incapacità di prendere una decisione chiara e precisa». Scrive Zaslavsky che «insistendo sulle misure drastiche e violente, Togliatti sfruttava la sua posizione di leader comunista occidentale più autorevole e più ascoltato per spingere i sovietici verso l'invasione» ricordando ai dirigenti del Cremlino «l'inviolabile principio della irreversibilità delle conquiste socialiste: una volta arrivato al potere, il partito comunista non lo lascia mai, perché la rivoluzione socialista non può fare compromessi né retrocedere».

BUDAPEST INSANGUINATA
Il 4 novembre del '56 le truppe sovietiche occuparono Budapest. Due giorni dopo su l'Unità Pietro Ingrao zittiva il dissenso scrivendo che «una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo». Col sostegno di un'ampia documentazione, Zaslavsky demolisce dunque il mito di un Pci non prono alle direttive di Mosca, di uno stesso Togliatti che avrebbe goduto di ampia discrezionalità al punto d'imboccare autonomamente la «svolta di Salerno» (per non dire della diffusa leggenda di un «Togliatti liberale» e della sua presunta influenza moderatrice su Stalin). Il rapporto tra il Pci e l'Urss, scrive Zaslavsky, «era molto complesso e in nessun modo potrebbe essere presentato come una totale subordinazione di Botteghe Oscure alla leadership sovietica», ma le decisioni finali di Mosca erano sempre determinanti e ai leader dei "partiti fratelli" rimaneva l'unico compito di eseguirle». Quanto a Togliatti, «la sua aspirazione fu sempre quella di diffondere l'influenza sovietica in Europa occidentale e in Italia e nello stesso tempo di tenere l'Italia fuori dal diretto controllo sovietico. Una valutazione dell'opera di Togliatti deve da una parte tener presente la sua posizione moderata a capo del Pci, ma, dall'altra, non deve trascurare il fatto che, sia nella sua veste di dirigente del Comintern, sia dopo il ritorno in Italia, cercò di difendere in primo luogo gli interessi della politica estera sovietica». Eppure ancor oggi e non solo da parte dei vetero stalinisti o della sinistra in genere, egli viene ricordato come un grande statista al servizio del proprio Paese.

da IlGiornale