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mercoledì, agosto 16, 2006

La passività dei paesi arabi di fronte al travaglio del Libano

di Giorgio S. Frankel - Nella guerra israeliana in Libano si può vedere il «doloroso parto di un nuovo Medio Oriente», ha detto il segretario di Stato americano Condoleezza Rice, un paio di settimane fa, scioccando mezzo mondo arabo.

Una frase dura e insensibile, ma non un lapsus. L’idea era di lasciare che la guerra compisse il suo corso: «Qualsiasi cosa facciamo, dobbiamo andare avanti verso il nuovo Medio Oriente, e non invece tornare indietro al vecchio». Poi, la Rice ha preso posizioni più caute, favorevoli ad una soluzione diplomatica, e per questo, secondo alcuni, s’è trovata emarginata nell’Amministrazione e in contrasto col presidente George W. Bush jr., che vuole una linea dura e di pieno appoggio a Israele. Per il vice presidente Dick Cheney, leader dei “falchi” di Washington, la guerra Israele-Libano ci dice cos’è l’inizio del XXI secolo.

L’idea americana di creare con la guerra un “Nuovo Medio Oriente” non è nuova. Nel 2003, a Washington, i neocon dicevano che la guerra all’Irak aveva anche lo scopo di «ridisegnare» la carta geo-politica della regione. Oggi, la continua distruzione fisica e sociale dell’Irak, ormai forse irreversibile, e la catastrofe del Libano, sembrano mettere in dubbio il progetto americano di un Nuovo Medio Oriente. Ma le distruzione e le guerre civili non significano necessariamente che il disegno sia fallito. Potrebbero far parte delle varie opzioni strategiche.

A Washington, uno dei neocon più bellicosi, Michael Ledeen, che ha molti fan in Italia, teorizza una strategia americana di «distruzione creativa». Edward Luttwak elogia le guerre civili (nei paesi arabi e islamici) sostenendo che portano alla pace. Reuel Marc Gerecht, dell’American Enterprise Institute, propone per il Medio Oriente una strategia «comunitaria», cioè volta a dividere gli stati arabi e islamici secondo le loro componenti etniche e religiose. Nel 1999, David Wurmser (oggi consigliere di Cheney) teorizzò come obiettivi strategici in Iraq: il suo smembramento in tre stati, l’emergere del potere sciita e la fine dell’identità politica araba. Sulla stessa linea, Robert Satloff ha suggerito di togliere dal lessico diplomatico americano i termini «mondo arabo» e «mondo islamico». Satloff, che dirige il celebre Washington Institute for Near Eastern Policy, un «think tank» filo-israeliano assai influente, ha definito la politica Usa nel Medio Oriente in termini di «instabilità costruttiva». L’anno scorso, egli disse, con notevole preveggenza, che questa politica sarebbe stata presto messa alla prova in Libano e in Siria. E oggi, molti propongono che Israele estenda quanto prima la guerra alla Siria.

A Washington, lo vorrebbero molti neocon, tra cui Irving Kristol, Meyrav Wurmser (del celebre Hudson Institute e moglie di David Wurmser) e il già citato Ledeen, oltre ai principali “falchi” dell’Amministrazione. A Gerusalemme, tra gli altri, lo storico Michael B. Oren, dello Shalem Center (autore di una storia della guerra arabo-israeliana del 1967, pubblicata anche in Italia), e il politologo Efraim Inbar, docente all’Università Bar-Ilan e direttore del Centro per gli studi strategici Begin-Sadat. Inbar ha scritto che per risolvere la crisi libanese bisogna «soggiogare la Siria». Ma la guerra in Libano, con tutte le sue distruzioni, sembra, per Israele, ben più difficile e lenta del previsto.

Una crisi come questa, con la minaccia di estendersi alla Siria e direttamente o indirettamente anche all’Iran, e comunque di destabilizzare buona parte della regione, sembra proprio configurarsi come una crisi di vasta portata, a livello mediorientale e a livello globale. Per ora, tuttavia, c’è da registrare che, nonostante gli interessi strategici in gioco, il sistema globale sembra rassegnato, almeno per ora, a non interferire nelle iniziative americane. Ancor più sorprendente può apparire la sostanziale passività dei paesi arabi di fronte al travaglio del Libano. Il fatto è che il Libano e la Siria (come pure l’Egitto), che fino all’inizio degli anni Settanta erano su una delle principali «linee calde» della strategia globale, oggi sono in posizione quasi periferica. La «linea calda» passa dalle parti dell’Iran, ma ha poco a che fare con le consuete vicende del Medio Oriente, e assai più coi nuovi sviluppi strategici ed energetici connessi all’Asia.

Il Medio Oriente arabo, un tempo politicamente esplosivo, scosso da rivoluzioni e fermenti ideologici, appare ormai spento, privo di forze, minacciato dall’implosione del radicalismo religioso, e strategicamente emarginato. Chiari segni di questa situazione li si è avuti in occasione della guerra americana a Saddam Hussein, e soprattutto dopo l’invasione e la distruzione dell’Iraq, un evento traumatico per l’arabismo politico e vissuto quasi con apatia. Come sembra sia oggi il caso della guerra israeliana in Libano. Dunque, il Medio Oriente è oggi quasi una retrovia rispetto al vero fronte della conflittualità globale d’oggi (l’Iran, l’Asia centrale e la Cina), e che però va in qualche modo «normalizzato» e «stabilizzato».

da Il sole 24 ore