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lunedì, settembre 25, 2006

Lo stalinismo e la sinistra italiana

di Andrea Casadio - Negli ultimi quindici anni, l’apertura (quantomeno parziale) degli archivi ex sovietici e il nuovo clima culturale favorito dal crollo del sistema comunista e dalla fine della guerra fredda hanno permesso un profondo rinnovamento degli studi storici, in particolare proprio in relazione agli anni cruciali del dopoguerra e alla formazione dei grandi schieramenti politici e ideologici che hanno caratterizzato il quarantennio della cosiddetta «Prima Repubblica». Uno dei frutti più interessanti di questo rinnovamento storiografico è il volume di Victor Zaslavsky su Lo stalinismo e la sinistra italiana. Dal mito dell’Urss alla fine del comunismo 1945-1991.
Sulla scorta di una notevole esperienza nello studio del regime sovietico, nella presente ricerca - risultato di una rivisitazione organica e dell’integrazione di studi precedenti - l’autore si rivolge specificamente alla realtà italiana e cerca di dare una risposta ad alcune domande che a lui, nato a San Pietroburgo e diretto testimone della miseria materiale e morale dello stalinismo, si presentano con un’urgenza esistenziale oltre che, per così dire, «professionale»: come è potuto accadere che il mito sovietico abbia fatto presa in strati tanto ampi e qualificati delle società occidentali prima e dopo il 1945? E, ancora, come è stato possibile che lo abbia fatto in maniera tanto profonda e duratura, tanto da orientare ancora oggi, in un contesto del tutto mutato, non pochi aspetti del dibattito politico-culturale e dello stesso sentire diffuso della nostra società? La risposta - secondo l’autore - sta nel grande fascino dell’ideologia totalitaria, ma anche nella capacità della potenza che ne rappresentava il motore politico a livello mondiale (l’Unione Sovietica) di alimentarlo attraverso il sostegno ai movimenti comunisti dei paesi «reazionari», come appunto l’Italia.
A tale riguardo, lo studio di Zaslavsky è tanto più significativo in quanto riesce a mettere in discussione alcune impostazioni storiografiche invalse (incentrate in particolare sulla presunta «indipendenza» del movimento comunista italiano rispetto al centro moscovita), grazie appunto all’utilizzo di fonti di recente acquisizione e alla loro interpretazione in un’ottica comparata: in un’ottica, cioè, che astrae dalla dimensione puramente nazionale per inserire la vicenda italiana in quella complessiva della realtà internazionale della guerra fredda, e in particolare del movimento comunista, così profondamente caratterizzato dall’autorità ideologica e operativa del centro sovietico. Quello che ne emerge è il panorama di una sinistra assai meno indipendente nelle sue decisioni politiche di quanto comunemente ritenuto dalla storiografia tradizionale, come appare dall’esame di alcune vicende particolari. La presunta adesione ai principi democratici attuata da Togliatti nel dopoguerra, ad esempio, risulta piuttosto il prodotto di una tattica politica dettata dall’Unione Sovietica, a sua volta frutto di una pragmatica valutazione dei rapporti di forza anziché di una strategia «conciliativa» nei confronti del blocco occidentale come espressione di una fedeltà agli accordi di Yalta.
Le documentazioni degli archivi sovietici, insieme a quelle dei servizi segreti americani e italiani e a quelle acquisite dalla Commissione stragi del Parlamento, dimostrano ad esempio l’esistenza di un esercito clandestino approntato dal PCI negli anni dell’immediato dopoguerra e pronto a una eventuale insurrezione, che fino al 1948 venne ritenuta dalla direzione del partito come un’opzione concretamente praticabile. Fu solo in quell’anno che l’ipotesi venne scartata, e non per iniziativa del Partito italiano ma per disposizione del governo sovietico, sulla base del risultato delle elezioni del 18 aprile ma anche di fattori di politica internazionale che orientarono Stalin al definitivo disimpegno dallo scacchiere mediterraneo: il tramonto dell’insurrezione greca, che di quella italiana doveva rappresentare una sorta di «prova generale», e la rottura con la Jugoslavia, che avrebbe dovuto costituire un sostegno politico e militare imprescindibile per il partito italiano. Se dopo il 1948 l’apparato militare venne in parte smantellato e ridotto alla dimensione di «apparato di vigilanza» molto più snello con compiti di sicurezza, di raccolta di informazioni e di sorveglianza interna al Partito stesso, è da quella data che assunse invece una dimensione sempre più consistente il finanziamento occulto da parte sovietica al PCI, sia nella forma di versamenti diretti sia in quella del sostegno indiretto a organizzazioni e imprese collaterali al partito, e destinata a protrarsi (almeno quella indiretta) fino al crollo dell’URSS nel 1991. Da segnalare che tale sostegno finanziario favorì a lungo anche il Partito Socialista. Se i finanziamenti in suo favore cessarono solo negli anni Sessanta, fu, come è noto, prima del 1956 che la leadership di Nenni lo appiattì su posizioni di totale subalternità a quelle comuniste, prestando con ciò un prezioso sostegno alla politica sovietica: unico partito socialista europeo ad avere sposato la politica stalinista, la sua posizione fu fondamentale nel rendere le correnti antitotalitarie assolutamente minoritarie nel panorama della sinistra italiana.
Una realtà che, come abbiamo anticipato, nonostante i decenni trascorsi e il rinnovamento in corso produce ancora i suoi frutti nel panorama politico-culturale del nostro paese. «Questa eredità storica - afferma l’autore - si rivela […] in tre caratteristiche interconnesse e interdipendenti: la debolezza del riformismo e la mancanza di un progetto riformista realistico e realizzabile; la comunicazione e la competizione politica basate sulla delegittimazione dell’avversario e condotte in maniera antidemocratica, cioè senza sentire l’obbligo di presentare soluzioni alternative; l’antiamericanismo come base di costruzione dell’identità politica. Individuare e analizzare le radici nazionali, i percorsi storici e le tappe della cristallizzazione di questa cultura politica diventa la condizione necessaria per liberare la coscienza dai miti e dagli inganni dello stalinismo».

da Storicamente

domenica, settembre 17, 2006

Creare una nuova cortina di ferro

di Lino Siciliano - Dai paesi musulmani si è levata unanime e amplificato dai media una condanna alle parole del Papa.
Ma cosa ha detto di così sacrilego? In realtà non erano sue parole ma ha citato il dialogo che l'imperatore bizantino Manuele II Paleologo, nel 1391, "ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam", ripeto specificando bene che si trattava di una citazione: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava".
Quindi cose che tutti sanno, è storia che l'islamismo si è diffuso tramite conquiste e usando la spada, oltretutto cose dette e scritte da più di 500 anni.
La Fallaci espresse lo stesso concetto a suo modo: "Come se Maometto fosse venuto al mondo con un ramoscello d' ulivo in bocca e fosse morto crocifisso insieme a Gesù. Come se non fosse stato anche lui un tagliateste e anziché orde di soldati con le scimitarre ci avesse lasciato san Matteo e san Marco e san Luca e san Giovanni intenti a scrivere gli Evangeli" e ancora "Allah non ha nulla in comune col Dio del Cristianesimo. Col Dio padre, il Dio buono, il Dio affettuoso che predica l' amore e il perdono. Il Dio che negli uomini vede i suoi figli".
L'intolleranza totale e assoluta dell'islam verso le altre culture o religioni è assoluta, tanto è vero che la cultura occidentale non è mai riuscita ad assimilare nulla dell'islam nonostante il sincretismo che ci ha contraddistinti nei secoli verso altre culture.
Se qualcuno pensa a un islam moderato con cui dialogare valgano ancora le parole della Fallaci: "Continua anche la frottola dell'Islam vittima dell'Occidente. Come se per quattordici secoli i musulmani non avessero mai torto un capello a nessuno e la Spagna e la Sicilia e il Nord Africa e la Grecia e i Balcani e l' Europa orientale su su fino all'Ucraina e alla Russia le avesse occupate la mia bisnonna valdese. Come se ad arrivare fino a Vienna e a metterla sotto assedio fossero state le suore di sant'Ambrogio e le monache Benedettine".
Una cultura inassimilabile, come più volte detto e come i fatti dimostrano, ma mentre in occidente chi esprime concetti come la Fallaci è accusato di xenofobia, vilipendio, razzismo che sono reati penali con cui si rischia la galera, l'islam continua a fare proclami e a insultare la cultura occidentale persino nelle nostre città senza subire ritorsioni altrimenti si pecca di essere razzisti, consentendo a orde di fanatici di penetrare, disprezzare, distruggere, umiliare la nostra identità quando non la nostra stessa incolumità.
E' vero che non tutti gli islamici sono terroristi ma è vero che tutti i terroristi sono islamici.
L' occidente piega la testa e loro gridano di più, questo non è ammissibile è la stessa metodologia del nazismo e questo non evitò la catastrofe della guerra.
Il dialogo non può essere fatto in questi termini, al contrario bisogna erigere una nuova cortina di ferro da una parte l'occidente e dall'altra i paesi islamici, niente contatti, come è avvenuto per decenni con il mondo comunista, anche con loro non c'era dialogo. Una nuova cortina per preservare la nostra identità, non è necessario dialogare.
Per secoli, il muro che la chiesa aveva eretto ci aveva preservato, anche a costi di "lacrime e sangue", da questa invasione. Oggi il Papa è costretto a chiedere scusa per una citazione e per cose sostanzialmente vere.
Churchill soleva dire: "I pacifisti sono quelli che danno da mangiare ai coccodrilli nella speranza di essere sbranati per ultimi", il dialogo deve essere in posizione prona o eretta o meglio non esserci affatto? Non si può avere paura perché si è espressa una opinione.
La difesa della nostra identità deve essere fatta con ogni mezzo, in ogni modo e con qualsiasi conseguenza, pena la distruzione della nostra civiltà.

giovedì, settembre 14, 2006

"Pacifisti" di lotta e di governo

di Fabio Cintolesi - Molti si chiedono come mai, gran parte della sinistra che si definisce "pacifista", una volta arrivata al governo, abbia entusiasticamente sostenuto una missione "di pace" armata fino ai denti e con regole d'ingaggio (cioè il come i soldati in missione debbano reagire alle minacce, concrete o potenziali) che poco si discostano da quelle di "Enduring Freedom", tanto per fare un esempio.
Ciò dopo che le stesse persone si erano opposte a spada tratta alla partecipazione italiana in Iraq e in Afghanistan. Che la missione italiana in Libano sia giusta o sbagliata, credo che questa contraddizione lasci onestamente perplessi.
Qualcuno mi ha detto: "Ma stavolta c'è l'Onu". Perchè in Afghanistan no? Sull'Iraq si potrebbe discutere, data l'estrema ambiguità delle risoluzioni in merito. Ma sull'Afghanistan c'erano eccome, diverse risoluzioni; nell'ordine, la 1368, la 1373, la 1378, la 1386 e, da ultimo, la 1510.
"Ma Israele va fermato", m'ha ribattuto qualcuno. Perchè Saddam Hussein e i talebani erano soggetti maggiormente meritevoli di tutela? Senza entrare nel merito di tali questioni, la cui analisi ci porterebbe troppo lontano, si capisce che certe argomentazioni mostrano chiaramente la corda.
La ragione di tale apparente schizofrenia dei "pacifisti" finiti al governo, va ricercata, a mio avviso, nella stessa nascita, per fecondazione eterologa, del movimento pacifista di ispirazione comunista e socialista in Italia.
Questi eventi, poco conosciuti, ma fondamentali per comprendere il modus operandi di gran parte del movimento pacifista italiano di oggi, sono mirabilmente descritti nel libro "Lo stalinismo e la sinistra italiana" dello storico Viktor Zaslavsky, edito per Mondadori nel 2004.
Consiglio vivamente la lettura di questo stralcio, a me chiarì a suo tempo molte cose.

"Storicamente, la creazione del movimento pacifista, organizzato come movimento dei partigiani della pace, fu il capolavoro della politica estera e della propaganda stalinista. La campagna della “lotta per la pace”, con le sue varie ramificazioni, e, in primo luogo, la creazione del movimento dei partigiani della pace, ideato, organizzato, finanziato e guidato dalla leadership staliniana, diventò il metodo di esportazione e di diffusione dell’antiamericanismo in Occidente.

Già durante il primo congresso del Cominform, nel settembre del 1947, Zdanov indicò tra i compiti strategici primari del movimento internazionale comunista la creazione nei paesi occidentali di una organizzazione per la difesa della pace e per la lotta contro il “diktat americano”. Secondo Zdanov, il movimento pacifista avrebbe permesso ai partiti comunisti occidentali non solo di estendere la propria influenza su strati e gruppi della popolazione non legati all’ideologia comunista, ma anche di ostacolare il processo di integrazione europea e l’unificazione politica e militare dell’Occidente. Il 6 gennaio 1949 il Politburo sovietico approvò la risoluzione Sul congresso mondiale dei partigiani della pace che rimane tuttora il documento fondamentale per la storia del movimento pacifista in Occidente. Il Politburo decretò la convocazione del congresso mondiale per la pace a Parigi nel 1949, formulò gli obiettivi della campagna per la pace, indicò sia le organizzazioni che dovevano promuovere il congresso, sia quelle la cui partecipazione era considerata indispensabile e stanziò le risorse finanziarie per coprirne le notevoli spese. Il Cominform, a sua volta, assicurò un’attiva partecipazione dei partiti comunisti occidentali alla campagna per la pace che “doveva occupare il posto centrale in tutta l’attività dei partiti comunisti e delle organizzazioni democratiche”.

Così, nel 1949, in Italia furono organizzati scioperi contro l’adesione al Patto Atlantico, mentre nel 1950, dopo l’attacco della Corea del Nord alla Corea del Sud, autorizzato e appoggiato da Stalin, i partiti comunisti, specialmente il Pci e il Pcf, mobilitarono il movimento pacifista per attuare scioperi e manifestazioni di massa contro la Nato, contro gli impegni militari presi dai governi europei e in particolare contro il sostegno militare alla Corea del Sud da parte americana e di altri paesi, approvato dalle Nazioni Unite. In Francia e in Italia furono organizzate azioni di boicottaggio del trasporto di armi per le truppe in Corea e fu ulteriormente rafforzata la propaganda antimilitarista e antiatlantica all’interno dei rispettivi eserciti.

La lotta per la pace era sempre un prodotto da esportare. All’interno del campo sovietico l’apparato di propaganda denunciava il concetto “ideologicamente nocivo” del pacifismo “astratto” o “indiscriminato”, contrapponendo le “guerre giuste” condotte dall’Unione Sovietica e dai suoi alleati, a quelle “ingiuste” intraprese dal campo occidentale. (…)

Nel periodo staliniano l’antiamericanismo diventò un denominatore comune di tutte le principali campagne propagandistiche del movimento comunista internazionale. Il 25 maggio 1950 Togliatti spiegava così ai membri della Direzione del Pci il vero senso della campagna di mobilitazione: “Essa non è solo pacifista e umanitaria, ma antimperialista e antiamericana, né bisogna questo carattere farlo scomparire… Non dimentichiamoci dunque anche in questa nuova contingenza di trarre l’acqua al nostro mulino”. Il fatto che il pacifismo a senso unico fosse utilizzato sia per la diffusione del sentimento antiamericano sia per la difesa della politica estera sovietica non sfuggì all’attenzione dei contemporanei. Norberto Bobbio, all’epoca militante del partito socialista, scrisse nel 1952: “Curiosi pacieri i partigiani della pace. Essi si offrono per ristabilire la pace tra i contendenti. Ma dichiarano sin dall’inizio senza alcuna reticenza che dei due contendenti l’uno ha ragione a l’altro ha torto, che la pace si può salvare soltanto mettendosi da una parte sola”. Questa critica, però, fu ripudiata dal suo partito che condivideva la politica di incondizionato appoggio all’Urss staliniana."


da Radicali

mercoledì, settembre 13, 2006

Il terrore rosso in presa diretta

di Paolo Granzotto - «Lo stalinismo e la sinistra italiana» di Zaslavsky spiega quali furono (e sono) le radici del successo dell'ideologia comunista

Avendo vissuto lo stalinismo, Victor Zaslavsky non ne parla solo da storico qual è. Molte pagine del suo ultimo libro, Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori, pagg. 275 euro 17,50), sono autobiografiche e ricordano che cosa significava, anche nelle piccole faccende quotidiane, fare i conti con una tirannia che in Italia suscitava -e in parte suscita tuttora- «manifestazioni di ammirazione quasi patologiche». Mentre da noi l'Urss veniva esaltata come il regime «più libero di tutti», mentre milioni di «compagni» inneggiavano a Stalin, i cittadini sovietici, e Zaslavsky fra questi, conoscevano «la sensazione di agghiacciante paura alla vista dei furgoni neri della polizia, noti come "Marussia nera" o "corvo nero", in cui trasportavano gli arrestati o i detenuti, paura che saliva al grado di terrore paralizzante alla vista dei furgoni bianchi con la scritta "Carne" che verso la fine degli anni Quaranta furono utilizzati per lo stesso scopo. L'espressione corrente era "essere preso". Significava essere non solo arrestato o condannato, imprigionato o addirittura fucilato, ma tutte queste cose insieme. Chi era "preso" spariva nel nulla».

CONTROLLI SUI «COMPAGNI»
Quello era lo stalinismo, «infinita violenza inflitta in tutti noi che si rifletteva in una paura viscerale, instillata quotidianamente». Riprendendo una domanda dello storico americano Mark Lilla, Zaslavsky chiede: cosa può aver indotto pensatori e scrittori a giustificare le azioni di un tiranno e a negare qualsiasi differenza sostanziale tra quella tirannia e le società dell'Occidente libero? Cosa può aver indotto Luigi Longo a dichiarare alla Camera dei Deputati: «Anche a un esame sommario, il regime sovietico appare senz'altro come il più popolare, il più democratico, il più libero di tutti»? O Rossana Rossanda a sostenere che i meriti dello sviluppo stalinista, i benefici dell'alfabetizzazione e dell'industrializzazione pesano più delle vite di qualche milione di vittime? O Domenico Cacopardo a scrivere sull'Unità, riferendosi allo stalinismo: «Un processo rivoluzionario non può essere giudicato dal numero delle vittime, una dalla qualità dei suoi ideali e dagli effetti che ha prodotto nel mondo»? Se il dominio stalinista all'interno dell'Urss, scrive Zaslavsky, «fu basato anzitutto sul tenore, sull'eliminazione fisica di ogni opposizione politica e ideologica, reale o potenziale e, soltanto in secondo luogo, sul monopolio ideologico», il controllo stalinista sul Pci e i partiti alleati «era determinato principalmente dal potere dell'ideologia, rafforzato dal prestigio dell'Unione Sovietica vittoriosa e sostenuto da cospicui finanziamenti». Ma questo non basta a spiegare la fede cieca, la mobilitazione permanente, il furore dell'intolleranza ideologica, la devozione quasi animalesca al partito, l'esaltazione -l'estasi, si potrebbe dire- che caratterizzava (e caratterizza tuttora) i seguaci dello stalinismo. Possono aiutare queste righe scritte da Xenia Sereni, moglie di Emilio, direttore di Critica marxista, comunista ortodosso che al tempo della rivolta ungherese si schierò dalla parte dell'Urss: «Il partito si è fuso con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Spiega Zaslavsky che «partendo dall'estremo razionalismo e pragmatismo della dottrina marxista-leninista si arriva al totale irrazionalismo, alla reificazione del partito, percepito non come entità astratta bensì come "essere" dotato di volontà, di ragione e di chiara comprensione dei propri interessi». Da qui il «monoideismo rivoluzionario», cioè la concentrazione totale sull'idea della rivoluzione e sulla propria predestinazione messianica, il dinamismo e l'«avanguardismo» che si manifestava nell'ininterrotta corsa in avanti, nel «rifiuto dei comuni sentimenti umani» e nella dedizione al compito esclusivo della lotta per la liberazione sociale». Grazie alla seppur parziale disponibilità degli archivi del Kgb e del Gru, Zaslavsky ha potuto affinare le ricerche su quegli anni e sugli uomini che abbracciarono e promossero lo stalinismo. Il risultato sono pagine assai interessanti sui rapporti fra il Cremlino e il partito socialista di Nenni; sulla crisi fra Stalin e Tito e le sue ripercussioni in Italia; sull'apparato paramilitare del Pci (la così detta «Gladio rossa», a proposito della quale Zaslavsky annota: «La presenza all'interno di uno stato democratico di una organizzazione armata di massa non soltanto schierata con una potenza straniera, ma capace di ricorrere all'insurrezione -e presumibilmente in certe condizioni pronta a farlo- fino a scatenare una guerra civile, è un fenomeno unico nella storia dell'Europa occidentale del dopoguerra); sui rapporti tra Cremlino e Botteghe Oscure alla vigilia delle elezioni del '48 con l'opzione della insurrezione armata; sui finanziamenti sovietici al Pci (svariati milioni di dollari l'anno. Accusa alla quale le sinistre rispondono con un ritornello sempre uguale: la Dc prendeva i soldi dagli Stati Uniti. Ma come rileva Zaslavsky «i finanziamenti per favorire il regime democratico plutipartitico e quelli per instaurare un regime monopartitico dipendente dal sistema totalitario richiedono una valutazione storica completamente diversa») e alla stampa comunista. Ne trasse vantaggio principalmente l'Unità, ma ne beneficiò anche Paese Sera, Il Nuovo Spettatore di Antonio Tatò (la cui redazione, si legge nella nota di pagamento del Politburo, «svolge una vibrata critica alla politica degli Stati Uniti e alla posizione proamericana di vari politici d'Europa»), Orizzonti che, sempre a giudizio del Politburo, «pone tra i suoi scopi principali una presentazione obiettiva della situazione nell'Urss». A tenere le fila dei finanziamenti era Armando Cossutta, il quale non si limitò a sollecitarli per i giornali, ma anche, come risulta da una serie di documenti d'archivio, chiedeva a Mosca, ottenendolo, «che il Pci venga aiutato all'addestramento di istruttori e specialisti in comunicazioni radio, messaggi in codice, tecniche di camuffamento e di travestimento». Uno dei capitoli più notevoli è dedicato allo «stalinismo di ritorno», ovvero al ruolo -sul quale gli archivi gettano nuova luce- di Palmiro Togliatti nella rivolta ungherese del 1956. Krusciov, come è noto, era indeciso sul da farsi e in soccorso dei falchi del Cremlino giunse Togliatti che inviò due telegrammi cifrati «rivolgendo inaudite critiche ai dirigenti sovietici, rimproverandoli per le divisioni interne e per l'incapacità di prendere una decisione chiara e precisa». Scrive Zaslavsky che «insistendo sulle misure drastiche e violente, Togliatti sfruttava la sua posizione di leader comunista occidentale più autorevole e più ascoltato per spingere i sovietici verso l'invasione» ricordando ai dirigenti del Cremlino «l'inviolabile principio della irreversibilità delle conquiste socialiste: una volta arrivato al potere, il partito comunista non lo lascia mai, perché la rivoluzione socialista non può fare compromessi né retrocedere».

BUDAPEST INSANGUINATA
Il 4 novembre del '56 le truppe sovietiche occuparono Budapest. Due giorni dopo su l'Unità Pietro Ingrao zittiva il dissenso scrivendo che «una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo». Col sostegno di un'ampia documentazione, Zaslavsky demolisce dunque il mito di un Pci non prono alle direttive di Mosca, di uno stesso Togliatti che avrebbe goduto di ampia discrezionalità al punto d'imboccare autonomamente la «svolta di Salerno» (per non dire della diffusa leggenda di un «Togliatti liberale» e della sua presunta influenza moderatrice su Stalin). Il rapporto tra il Pci e l'Urss, scrive Zaslavsky, «era molto complesso e in nessun modo potrebbe essere presentato come una totale subordinazione di Botteghe Oscure alla leadership sovietica», ma le decisioni finali di Mosca erano sempre determinanti e ai leader dei "partiti fratelli" rimaneva l'unico compito di eseguirle». Quanto a Togliatti, «la sua aspirazione fu sempre quella di diffondere l'influenza sovietica in Europa occidentale e in Italia e nello stesso tempo di tenere l'Italia fuori dal diretto controllo sovietico. Una valutazione dell'opera di Togliatti deve da una parte tener presente la sua posizione moderata a capo del Pci, ma, dall'altra, non deve trascurare il fatto che, sia nella sua veste di dirigente del Comintern, sia dopo il ritorno in Italia, cercò di difendere in primo luogo gli interessi della politica estera sovietica». Eppure ancor oggi e non solo da parte dei vetero stalinisti o della sinistra in genere, egli viene ricordato come un grande statista al servizio del proprio Paese.

da IlGiornale

lunedì, settembre 11, 2006

Il nemico interno

di Lino Siciliano - Durante la guerra spagnola in una conferenza stampa con giornalisti stranieri fu chiesto al generale Emilio Mola quale delle "quattro colonne" che componevano la sua armata avrebbe conquistato Madrid; al che Mola rispose che l'iniziativa sarebbe spettata alla quinta colonna (quinta columna), con implicito riferimento ai gruppi filomonarchici e franchisti che agivano clandestinamente a Madrid.
L'espressione indica gli aderenti a una fazione politica che si oppone alla maggioranza e vengono accusati di collaborare col nemico.

Anche l'Italia ha avuto ed ha la sua quinta colonna, ma cosa più grave è che i nemici con cui collabora sono cambiati con il tempo.
Dall'immediato dopoguerra l'attivismo comunista aveva addirittura pensato di prendere con la forza il potere con l'aiuto di Tito, questione bloccata da Stalin stesso, per non parlare dei pseudo rivoluzionari delle BR che per un ventennio dal 1969 al 1989 hanno fatto centinaia di morti per avere con la forza quello che non riuscivano ad avere democraticamente.
Gli aiuti dall'URSS che percepivano e gli attacchi allo stato democratico del PCI, mentre l'Occidente era in piena guerra fredda, è la classica quinta colonna.

Nonostante il crollo della cortina di ferro, continuarono nella loro lotta contro l'occidente, ove peraltro hanno lauti aiuti, ai partiti, ai giornali, ai circoli culturali, ai sindacati, e da dove pontificano, in modo esclusivamente autoreferenziale, cosa sia giusto fare, naturalmente con i numeri della "virtù" e non coi numeri della democrazia.

Oggi si schierano a favore dell'islamismo radicale e come elemento comune hanno, ovviamente, la distruzione dell'occidente e dei suoi valori ritenuti sbagliati.
Spingono per una forte immigrazione, per allargare la base su cui poggia la "colonna", un'immigrazione che a medio e a lungo termine porterà destabilizzazione sociale prima ed economica dopo.

Hanno sostenitori nella burocrazia, i sindacati, nelle Università, gran parte dei giornalisti e dell'intellighenzia ossia in quegli istituti che sono contro il libero mercato e che traggono il loro sostentamento nel parassitismo statale o che sopravvivono con forti aiuti pubblici come i giornali.
Il sistema migliore per combattere questo sistema è quello utilizzato dalla Thatcher ossia il mercato, ridimensionare il sistema burocratico e annullare gli aiuti di stato, eliminare il prelievo coattivo dei sindacati e inserire sistemi meritocratici e non con scatti automatici nel pubblico impiego.
In altre parole ampliare il sistema che loro vogliono combattere, inutile insistere che il blocco dell'immigrazione è essenziale anche da un punto di vista sociale oltre che fisico perché in Italia siamo in troppi.

La ricchezza - come diceva la dama di ferro - bisogna crearla prima di distribuirla, mentre in Italia tutti sono seduti davanti la torta per avere il loro pezzo e chi ha contribuito a farla resta affamato, il tipico sistema comunista togliere a chi lavora per darlo ai parassiti.

sabato, settembre 09, 2006

Le foto che non ti hanno fatto vedere

















1) piccola vittima israeliana
2) informatore palestinese degli israeliani ucciso e seviziato da palestinesi (notare i bambini intorno)
3) pezzi di soldati israeliani smembrati dai palestinesi
4) bambino israeliano sopravvissuto ad attentato palestinese
5) altro bambino israeliano sopravvissuto all'ennesima strage per mano palestinese
6) cadaveri israeliani estratti da autobus fatto espoldere da terrorista palestinese
7) sono conciati mediamente così, i corpi e i visi, perlopiù mutilati, dei feriti israeliani.

venerdì, settembre 08, 2006

Il multiculturalismo, promessa mancata

di Stefano Montefiori - Intervista allo scrittore Kureischi: "L’esame di cittadinanza non è una soluzione".

Come Karim Amir, il protagonista del romanzo di esordio Il Buddha delle periferie, Hanif Kureishi è «un vero inglese dalla testa ai piedi, o quasi». È uno dei più importanti scrittori britannici contemporanei, è nato a Londra 52 anni fa da padre pakistano e madre inglese, ha frequentato le moschee di Whitechapel e Shepherd’s Bush «per cercare di capire,ma trovavo queste riunioni così avvilenti che alla fine scappavo nel pub più vicino a bere». Kureishi ha dedicato gran parte dei suoi libri e film alle promesse mancate del multiculturalismo (domani esce in Italia la sua raccolta di saggi La parola e la bomba, Bompiani): nessuna fiducia in Carte dei valori e «esami di cittadinanza ».

Anche il governo italiano, come quello britannico, cerca di fissare regole e requisiti che tutti gli immigrati si impegnino a rispettare.
«Da tempo si parla di un esame di britannicità da imporre agli stranieri, ame sembra francamente un tentativo ridicolo che mostra la nostra incapacità di trovare una soluzione credibile alla mancata integrazione. I fanatici islamici non hanno problemi a firmare un foglio, si sentono vincolati solo al patto con Allah, non certo a quello stipulato con uno Stato. Gli altri, le persone normali, musulmani o di qualsiasi altra religione, si sentiranno solo umiliati dal dovere superare un esame di cittadinanza».

L’Italia è ancora sotto choc per il caso di Hina, la ragazza uccisa dal padre pakistano perché non voleva sottomettersi a un matrimonio combinato e perché «troppo italiana».
«In Inghilterra si pensa a una legge contro i matrimoni forzati. Ma da noi spesso sono i giovani a essere più radicali. In Mio figlio il fanatico, racconto la storia di un tassista che ha una relazione con una prostituta, e del figlio che disprezza lo stile di vita occidentale del padre fino ad abbracciare il fondamentalismo. Nelle comunità del Sud-est asiatico, in Gran Bretagna, ribellione giovanile contro gli anziani ora significa andare in moschea ad ascoltare gli imam radicali. Comunque, spero che il caso di quella ragazza non sia considerato emblematico. Una tragedia del genere, almeno fino a pochi anni fa, poteva accadere ovunque, pure in Sicilia».

Amartya Sen ha sostenuto su questo giornale che il multiculturalismo si è ormai trasformato in una «pluralità di monoculturalismi».
«Ha ragione, il multiculturalismo è diventato la separazione netta tra comunità del tutto autonome. Io l’ho sempre inteso invece come rispetto della propria identità, all’interno però di valori ed educazione comuni. Ecco perché la questione della scuola è centrale ».

È contrario alle scuole islamiche?
«Completamente contrario, tutto si gioca a scuola. Per combattere gli estremisti il governo Blair cerca di sostenere gli istituti degli islamici moderati, ma è una follia, perché tutto l’insegnamento islamico è pessimo, non fa che approfondire le divisioni. È una trappola nella quale non bisogna cadere. La scuola è l’unico luogo dove le comunità possono incontrarsi, i miei figli di origine pakistana devono avere compagni ebrei, cattolici, anglicani».

Lei e Salman Rushdie avete firmato un appello perché il film Brick Lane, tratto dal bestseller di Monica Ali, possa essere girato nonostante le proteste di parte della comunità del Bangladesh.
«Dobbiamo opporci ai tentativi di censura. Tutto è cominciato con il caso Rushdie, nel 1989: allora siamo stati ingenui, abbiamo sottovalutato la minaccia, e i fanatici ne hanno tratto una forza immensa. Il loro potere intimidatorio è in crescita, sono sempre più forti. Purtroppo, noi contribuiamo a incoraggiarli. In certi casi, come per esempio le vignette danesi su Maometto, la giusta lotta per la libertà di espressione è stata strumentalizzata dalla destra, di simili battaglie potremmo fare a meno. Per non parlare della guerra in Iraq, e del tandem Bush- Blair: le loro stupide azioni hanno solo rafforzato gli estremisti. Detesto Bush, ho abbandonato il Labour: voterò i liberal-democratici al solo scopo di punire Blair».

Quali soluzioni suggerisce?
«A parte una scuola laica uguale per tutte le comunità, non ho altre ricette, posso solo cercare di raccontare quello che mi sta attorno. Da cinque anni sto scrivendo un nuovo romanzo, Something to Tell You, dedicato al cammino della comunità asiatica in Gran Bretagna fino agli attentati di Londra del 7 luglio 2005. Ancora non l’ho finito, mi serve un altro anno di lavoro. Credo solo nel potere della cultura, spero che alla fine i valori dell’illuminismo vinceranno. Nell’immediato, sono molto pessimista».

da Corriere della Sera

giovedì, settembre 07, 2006

Le milizie infantili dello Hezbollah

trad. Maria Serena De Santis - Nel numero del 18 agosto 2006, il settimanale egiziano “Roz Al-Yusuf” ha presentato un’inchiesta di Mirfat Al-Hakim intitolata “Le milizie infantili dello Hezbollah”. L’articolo rivela che lo Hezbollah ha reclutato oltre duemila ragazzini tra i 10 e i 15 per servire in milizie armate, e che l’organizzazione giovanile scoutistica Mahdi, affiliata allo stesso partito, li addestra a diventare martiri. Ecco alcuni brani tratti dall’articolo.

Lo Hezbollah recluta bambini di appena dieci anni

Secondo “Roz Al-Yusuf”, «lo Hezbollah ha reclutato oltre duemila ragazzini innocenti dai 10 ai 15 anni per formare le milizie armate. Prima della recente guerra con Israele, questi bambini sono comparsi soltanto nelle celebrazioni annuali del “Giorno di Gerusalemme” e ci si riferiva a loro come alle “Unità del 14 dicembre”, ma oggi vengono chiamati istishhadiyun [martiri]. …

Lo Hezbollah ha abitualmente reclutato i ragazzi e i bambini, addestrandoli a combattere dalla più tenera età. Bambini di appena 10 anni portano uniformi mimetizzate, si dipingono le facce di nero, giurano di intraprendere la jihad e si uniscono agli scout della Mahdi…

Gli ufficiali di reclutamento selezionano i bambini sulla base di un unico test di verifica: la loro volontà di diventare martiri.»

Il bambini si addestrano al martirio

«I bambini sono istruiti da piccoli a diventare martiri nella giovinezza, come i loro padri; il loro addestramento è svolto dall’organizzazione giovanile scoutistica Mahdi … Affiliata allo Hezbollah, questa organizzazione insegna ai bambini i principii di base dell’ideologia sciita e dell’ideologia del partito … La prima lezione che i bambini apprendono è “La scomparsa d’Israele”, che rappresenta sempre una parte importante del programma. … La Mahdi è stata fondata in Libano il 5 maggio del 1985. …

Secondo il sito Web dell’organizzazione, alla fine del 2004 avevano completato l’addestramento 1491 scout; mentre 449 gruppi, con un totale di 41960 aderenti, si erano uniti all’organizzazione. Secondo le statistiche più recenti, dal 2004 sono pronti a diventare martiri 120 dei suoi membri.

Obiettivo dell’organizzazione è quello di addestrare una generazione esemplare di musulmani basata sulla “guida del giurista” [un principio fondante della rivoluzione islamica iraniana: l’unità del sommo potere politico e del sommo potere religioso, espresso prima dal presidente Khomeini e poi dal presidente Khamenei] e di prepararsi alla venuta dell’Imam Mahdi [il messia degli Sciiti]. I suoi membri, bambini compresi, decidono di obbedire ai loro comandanti, di sostenere l’onore della nazione musulmana e di prepararsi ad aiutare il Mahdi quando arriverà.»

“Una Nazione con bambini-martiri è destinata alla vittoria”

Secondo l’articolo Na’im Qasim, rappresentante del segretario generale del partito Hassan Nasrallah, in un’intervista a Radio Canada ha affermato:

“Una nazione con bambini-martiri è destinata alla vittoria, qualunque difficoltà si trovi a incontrare sulla sua strada. Israele non può conquistarci o violare i nostri territori, perché abbiamo figli martiri che ripuliranno l’ambiente dalla sporcizia sionistica. … Questo succederà grazie al sangue dei martiri, fino a che, finalmente, non realizzeremo i nostri obiettivi”.

da MEMRI

mercoledì, settembre 06, 2006

Il funerale di «Repubblica»

di Geronimo - È iniziata la nuova campagna d'autunno di Repubblica e delle élite al governo del Paese. Tema del giorno è la morte del socialismo. L'obiettivo è il famoso partito democratico. Se si dimostra che il socialismo è morto, c'è solo da seppellirlo e la sinistra (termine, a questo punto, di grande astrazione) non ha che da mettersi al lavoro per costruire una nuova forza politica. Con chi e per che cosa è tutto ancora da definire, naturalmente. Per l'avvio di questa nuova offensiva sono stati assoldati due autorevoli studiosi stranieri (John Lloyd e Anthony Giddens) i cui canti funebri sono pieni zeppi di errori.
I grandi studiosi, come in genere i grandi uomini, quando fanno gli errori anch'essi son grandi come è giusto che sia. La grandezza, infatti, è un valore permanente e Lloyd e Giddens sbagliando ne danno autorevole testimonianza.
Il controcanto all'orazione funebre sul socialismo (non manca, come al solito, il contributo di Ralph Dahrendorf) è stato affidato a Giuliano Amato, socialista d'antan e sottile disquisitore che mentre seppellisce la sua storia tenta di farne sopravvivere l'anima. La scena è perfetta e nelle prossime settimane altre voci si aggiungeranno al coro nel tentativo scoperto di togliere la materia del contendere dal percorso del partito democratico. Chi resiste a questo obiettivo dicendo che non vuole morire socialista, infatti, sbaglierà perché non si è accorto che il socialismo è morto. Anzi, secondo i nuovi necrofori, è lo stesso Partito socialista europeo a non essere più socialista (Giddens).
Per prudenza non hanno chiesto il parere a Zapatero o al vecchio Jospin o alla nuova stella del socialismo francese, Ségolène Royal. Anche a Tony Blair è utile non chiedere nulla. Quando una persona cara muore, è d'obbligo non parlarne molto ai parenti. Nei canti funebri non manca qualche sfregio come quello che fa Giddens quando dice che il socialismo è morto nel 1989, l'anno della caduta del Muro di Berlino. Si gireranno nella tomba non solo i Turati, i Saragat, i Nenni, i Craxi ma anche i Mitterrand e i Brandt che hanno tutti speso una vita per testimoniare che il socialismo era altra cosa rispetto al comunismo.
E quel Muro era comunista, non socialista. Per non parlare di altri strafalcioni storici ed economici che Giddens e Lloyd riferiscono quando discutono del fallimento della presenza pubblica nell'economia confondendola con il dirigismo statalista. Poco importa, però, questa approssimazione da Bignami perché la posta in gioco è quella di dare legittimità al governo delle élite economico-finanziarie.
Il motivo è tutto qui, dare forma di partito a chi partito non è, nascondendo così la natura finanziaria del nuovo potere.
Per far questo c'è stato bisogno prima di colpire a morte il tentativo della sinistra post comunista di essere, con forza, presente nel mondo finanziario e quindi aggredire l'Unipol e il suo legittimo tentativo di scalare una banca come la Bnl al di là delle responsabilità di alcuni suoi dirigenti. Il secondo tempo è questo, la dichiarazione di morte del socialismo perché sulle sue ceneri sia possibile costruire quel partito democratico che altro non è se non la finanza fatta politica. Se non ci fosse più un solo motivo per i socialisti di chiamarsi socialisti, ne resterebbe almeno uno, quello di esaminare criticamente la nuova struttura del potere, la sua legittimazione democratica e i termini migliori per coniugare, nella stagione della globalizzazione, democrazia e sviluppo.
Ai lettori che potrebbero chiedersi del perché della nostra difesa del socialismo va ricordato quel che diceva Giuseppe Mazzini a proposito della libertà. Scrivendo ai patrioti austriaci Mazzini, infatti, diceva «Io difendo la vostra libertà perché amo la mia libertà». I nuovi necrofori, con Carlo De Benedetti in testa per la seconda volta, non vogliono seppellire solo il socialismo ma l'intera politica con tutte le sue culture di riferimento e i suoi nuovi orizzonti per affidare alle élite illuminate e finanziarie il governo del Paese. Vedremo nei prossimi giorni chi, nell'area socialista vecchia e nuova avrà il coraggio di dare voce alle ragioni della politica e della storia, ricordando che solo chi ha un passato che vive può costruire un futuro credibile.

da IlGiornale

martedì, settembre 05, 2006

Il gulag eurabico

di Lino Siciliano - Il sistema dei gulag è famigerato soprattutto come mezzo di repressione degli oppositori politici, in realtà "il gulag non è soltanto un campo di concentramento, è una mentalità, una psicologia di repressione politica, una suddivisione della società in nemici e non, che accompagna l’ideologia" dice il dissidente Vladimir Bukovskij.

Il gulag non era solo l'opposto della libertà ma addirittura l'opposto del libero pensiero, bisognava pensare ciò che ti dicevano di pensare.

Traslando questo concetto ogni volta che si vieta di esprimere un pensiero e si pretende di modificare le idee ci si trova in un gulag.

"La guerra moderna è una guerra partigiana, cioè ha la sua radice nelle ideologie e non trova più limiti nello Stato, anzi si radica all'interno dello Stato e della società. Il partigiano, infatti, non difende la terra da un'occupazione, ma conduce una lotta in nome di una propria verità ideologica in tal modo, egli sostituisce al nemico pubblico un nuovo nemico privato e regredisce, pertanto, alla barbarie" diceva nel 1963 Carl Schmitt nel suo "Teoria del Partigiano".

Anche in questo caso traslando il concetto di "guerra partigiana" in "guerra culturale" ci ritroviamo in una lotta ideologica.

Che cosa accomunino i precedenti concetti con l'Europa sarà presto detto, ma prima mi si permetta di inserire un ulteriore elemento.

Il collaudato sincretismo occidentale che è riuscito ad assimilare varie culture anche molto diverse, si pensi ai barbari nell'impero romano o le continue mescolanze dal medio evo fino ai giorni nostri, non riesce ad assimilare la cultura islamica dopo circa 1400 anni. Ma ancor peggio nell'islam non c'è traccia di alcun elemento occidentale. E non certo perché le due culture non si siano mescolate. Lo sa bene la storia quando Carlo Martello nel 732 a Poitiers li respinse oltre i Pirenei o a Lepanto nel 1571 e ancora a Vienna nel 1683. L'occidente e l'islam più volte si sono incontrati e scontrati e in alcuni casi rischiando addirittura di scomparire. Per cui oggi ci ritroviamo con individui culturalmente inassimilabili in costante crescita nel territorio europeo.

Oggi, la sinistra radicale incarna quei valori che sono tipici dell'islam come la cultura anti-occidentale, anti-americana, anti-capitalista e antisemita creando quella commistione con il coranesimo integralista che in definitiva mina alla base la nostra cultura.

L'intellighenzia, assolutamente autoreferenziale, di sinistra bolla come xenofobo e razzista, naturalmente sono reati penali, chiunque non la pensi come loro creando quel "gulag europeo" totalmente immobile di fronte alla colonizzazione subìta sia fisica che culturale.

Una lotta ideologica portata avanti, negando attraverso falsi complottismi, il diritto dell'occidente a reagire. Non si dimentichi la frase "con le vostre leggi vi invaderemo e con le nostre vi domineremo" che è il manifesto dell'invasione islamica.

Vengono create istituzione di cui solo gli stranieri possono usufruire come il numero antirazzismo, come se il razzismo fosse insito solo nella cultura italiana o dando precedenza agli stranieri a servizi pubblici solo perché non italiani.

Se qualcuno pensa ad un islam moderato, di cui per altro non ci sono tracce, legga questo: "Quando incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine". (Corano, Sura XLVII, 4)

E lo confronti con questo: "Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere." (Art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo)

Li dividono circa 1400 anni di storia a cui non possiamo rinunciare, sappiamo a cosa la "democrazia delle virtù" contro la "democrazia dei numeri" abbia portato. Non possiamo permetterci di perdere questa guerra d'identità, pena la fine dell'Europa come la conosciamo e l'insorgere dell'Eurabia, processo peraltro già in atto, con la creazione del "gulag eurabico" appunto.

lunedì, settembre 04, 2006

Boaz Ganor: "All'Italia dico: cercate di capire le regole del gioco"

di Cristina Balotelli - La tregua reggera' per alcuni mesi.

Poi riprendera' il conflitto. E' l'opinione di uno dei massimi esperti al mondo di terrorismo, l'israeliano Boaz Ganor, vice rettore della "Lauder School of Government" presso l'Interdisciplinary Center a Herzliya e fondatore dell'Institute for Counter-Terrorism, un centro di ricerca indipendente.
Ganor, autore del libro 'The Counter-Terrorism Puzzle - A Guide for Decision Makers", in questa intervista spiega che la chiave per la stabilita' in Medio Oriente e' la Siria e che quanto e' accaduto alla frontiera con il Libano e' solo una parte del piu' generale processo di Jihad globale.

Come valuta l'accordo di cessate il fuoco?
Innanzitutto credo che ogni cessate il fuoco sia meglio di una guerra. Tuttavia, da un punto di vista israeliano, accettando questa tregua abbiamo avuto piu' costi che benefici. Israele, al momento dell'entrata in guerra, aveva diversi obiettivi. Primo, portare a casa i soldati rapiti. Secondo, smantellare la capacita' militare degli Hezbollah, decine di migliaia di Katyusha a corto, medio e lungo raggio. Terzo, spezzare la connessione Hezbollah-Iran attraverso il territorio siriano, usato per far passare le armi. Nessuno di questi obiettivi e' stato raggiunto. La comunita' internazionale non lo ha permesso.

Ci sara' un'altra guerra?
Questo cessate il fuoco e' temporaneo. Nel giro di qualche mese il conflitto riprendera'. C'e' troppa delusione in Israele e tutti, europei, americani, libanesi, Hezbollah, stanno nascondendo il problema. Tra gli Hezbollah e il Libano esiste un accordo in base al quale l'organizzazione non sara' smantellata in quanto milizia, ma dovra' nascondere le sue armi. Inoltre, le forze Unifil non saranno dispiegate lungo la frontiera con la Siria, quindi nessuno impedira' il rifornimento di armi agli Hezbollah che intanto stanno ricevendo un enorme flusso di denaro dall'Iran per ripagare i civili libanesi colpiti dalla guerra. Questo procurera' loro nuovi seggi in Parlamento.

Nasrallah ha detto 'non andiamo verso un secondo round'.
Infatti sara' Israele ad andare per il secondo round. E' solo questione di tempo. Non penso neppure che Nasrallah pianificasse il primo round: non si aspettava una simile reazione d'Israele. Tra qualche mese, quando la situazione si sara' stabilizzata, lancera' un altro attacco e Israele rispondera'.

Alcuni politici israeliani mostrano aperture verso la Siria. Tzipi Livni sta cercando un canale di comunicazione, Avi Dichter ha detto che e' il momento di considerare la concessione delle alture del Golan alla Siria in cambio della pace. La Siria e' dunque la chiave?
La Siria e' l'elemento chiave per la stabilizzazione. Negli ultimi anni e' stata spinta, dalla politica americana, nelle braccia dell'Iran: e' stata inserita nell' 'asse del male', tra quei paesi che sponsorizzano il terrorismo. Come conseguenza, ha stretto un'alleanza con l'Iran, che pero' e' artificiale perche' i due Paesi non condividono lo stesso approccio radicale islamico. E nemmeno gli stessi obiettivi, perche' se l'Iran raggiungesse i suoi obiettivi in Medio Oriente il Libano diventerebbe un Paese islamico radicale sciita, governato dagli Hezbollah. Questo rappresenterebbe un grande pericolo per il regime alawita di Bashar Assad, gia' minacciato dentro e fuori dai radicali. Ma lui non vuole riconoscere che l'alleanza con l'Iran e' controproducente. Penso che ci sia bisogno della Siria come elemento stabilizzatore perche' vedo gli scontri alla frontiera con il Libano come una parte del processo internazionale di Jihad globale. Alla fine, la guerra contro i jihadisti globali sara' vinta o persa solo se gli stessi musulmani si sveglieranno e capiranno che devono essere loro a combatterli, non l'America o l'Europa. Dopo l' "asse del male" ci vuole un "asse della speranza": abbiamo bisogno di vedere l'Egitto a fianco della Giordania, della Turchia, dell'Indonesia. La Siria appartiene a questo schieramento, e non all'asse del male. Con o senza la pace con Israele, prima o poi dovranno capirlo.

Dobbiamo aspettarci perdite tra le forze internazionali in Libano, ci saranno attentati terroristici e rapimenti?
Si, ma non subito, perche' ora sarebbe controproducente per gli Hezbollah. Credo che nel giro di alcuni mesi vedremo molta propaganda, in ambiente sciita, contro le forze Onu. Le cose cambiano molto rapidamente in Medio Oriente. Se domani mattina, per esempio, qualcuno decidesse di attaccare gli impianti nucleari iraniani, l'Hezbollah attaccherebbe immediatamente Israele in rappresaglia. Israele risponderebbe e probabilmente le forze Onu si troverebbero tra i due fuochi. E se cercassero di impedire agli Hezbollah di avvicinarsi al confine israeliano, sarebbero attaccate. Fino a quando gli Hezbollah restano in possesso di una quantita' enorme di armi e munizioni, nella regione siamo tutti seduti su una bomba a orologeria. E non dimentichiamo che in Libano ci sono anche altre fazioni, inclusi palestinesi e attivisti di Al-Qaeda. Questi militanti potrebbero vedere le forze europee come potenziali obiettivi, indipendentemente dagli sciiti.

L'Europa, e in particolare Francia e Italia, vogliono giocare un ruolo importante in Medio Oriente. Cosa ne pensa?
Da una prospettiva israeliana, direi che gli europei non sono mai stati dei mediatori imparziali. Tradizionalmente sono pro-palestinesi, con alcune eccezioni: i governi britannico, italiano e tedesco. L'Europa puo' giocare un ruolo importante nella regione, ma una volta raggiunta la pace: da una parte potrebbe persuadere i palestinesi ad abbandonare il terrorismo e a costruire un rapporto di fiducia con Israele, dall'altra sostenere economicamente i palestinesi una volta cominciato il processo di pace.

E quale consiglio darebbe al Governo italiano?
E' importante capire quali sono le regole del gioco nella regione. Bisogna capire gli scopi dei vari attori e il loro linguaggio. Capire che non tutto quello che viene detto e' quello che si vuole significare. Gli Hezbollah, per esempio, usano un doppio linguaggio e una doppia politica. Possono dire una cosa e farne un'altra. Quando il presidente iraniano Ahmadinejad parla di pace, non e' la pace a cui pensa l'Occidente. Quindi il mio consiglio e' di non basarsi soltanto su quello che viene detto, ma di controllare cosa viene fatto.

da IlSole24Ore

sabato, settembre 02, 2006

I nove comandamenti del pensiero unico

di Edward Feser – L'egemonia della sinistra nelle università è così schiacciante che perfino le persone di sinistra non la mettono in dubbio. Si tratti di un'istituzione pubblica o privata, di un piccolo college o di un prestigioso campus universitario, si può prevedere con assoluta certezza che i temi che pervadono i programmi di studio saranno questi:

a) il capitalismo è intrinsecamente ingiusto, disumano e portatore di miseria;
b) il socialismo, quali che siano i suoi fallimenti pratici, è motivato dai più alti ideali e i suoi luminari, specialmente Marx, hanno ancora molto da insegnarci;
c) la globalizzazione danneggia i poveri del Terzo Mondo;
d) le risorse naturali si stanno consumando e l'attività industriale è sempre più minacciosa per l'ambiente;
e) quasi tutte le differenze psicologiche e comportamentali tra uomini e donne sono «socialmente costruite», e le loro differenze di reddito o di presenza nelle diverse professioni sono per la maggior parte il risultato dal «sessismo»;
f) i problemi dell'underclass negli Stati Uniti sono dovuti al razzismo, mentre quelli del Terzo Mondo sono dovuti ai perduranti effetti del colonialismo;
g) la civiltà occidentale è oppressiva in maniera unica, specialmente verso le donne e la gente di colore, e i suoi prodotti sono spiritualmente inferiori a quelli delle culture non-occidentali;
h) le credenze religiose tradizionali, specialmente quelle cristiane, si fondano sull'ignoranza dei moderni sviluppi scientifici e oggi non possono più essere razionalmente giustificate;
i) gli scrupoli morali tradizionali, riguardanti specialmente il sesso, si basano sulla superstizione e sull'ignoranza e non hanno alcun fondamento razionale...

Ciascuna di queste affermazioni è a mio avviso falsa, in alcuni casi in maniera dimostrabile. Tuttavia è molto raro sentire nelle università qualcuno che sfidi seriamente queste affermazioni, di solito accettate come talmente ovvie da far credere che ogni visione contrastante sia motivata da ignoranza o interesse personale. I grandi pensatori del passato che difendevano opinioni opposte alle loro vengono trattati come reperti archeologici, e i loro argomenti vengono presentati in forma caricaturale allo scopo di ridicolizzarli; i pensatori del presente che difendono queste idee, quando non sono totalmente ignorati, vengono presentati come macchiette per poi essere consegnati all'oblio.

Visitando un moderno campus universitario si sente ripetere il mantra della «diversità» tante di quelle volte, che viene voglia di urlare «Basta!». L'unica diversità che non si incontrerà mai è quella che più conta in un contesto accademico: la diversità di pensiero sulle più fondamentali questioni riguardanti la religione, la moralità, la politica .

Ora, la domanda è: perché l'università è caduta in pieno dominio della sinistra? Esistono diverse teorie. La prima potrebbe essere chiamata la «teoria della sopravvivenza del più a sinistra». L'idea sarebbe che i professori, a dispetto delle chiacchiere sulla diversità, tendono a circondarsi di colleghi che la pensino come loro in questioni di politica, moralità e cultura. Poiché i professori tendono a essere di sinistra, quelli nettamente di destra tenderanno a essere eliminati dalla «selezione» quando si devono decidere assegnazioni di cattedre.

Il problema di questa teoria è che spiega al massimo come un professore sinistroide diventi tale una volta che il numero degli accademici di sinistra raggiunga una massa critica, e come successivamente conservi la propria posizione. Ma perché mai dovrebbe formarsi questa massa critica? E perché non ci sono significative forze conservatrici capaci di mantenere un equilibrio ideologico? Sembrerebbe che ci sia qualcosa nella natura stessa della professione che inclini i suoi rappresentanti verso sinistra. Robert Nozick, nel saggio Perché gli intellettuali si oppongono al capitalismo?, suggerisce che la spiegazione possa essere rinvenuta negli anni formativi dell'intellettuale medio. Questi rappresenta quel genere di persona che, a scuola, va bene sul piano intellettuale ma non altrettanto sul piano sociale. Egli cioè viene ricompensato per il modo esemplare con cui si conforma alle direttive dell'autorità centrale (l'insegnante) che applica un piano completo e dettagliato (il programma di studi) entro un sistema sociale irreggimentato (la classe scolastica); ma non viene remunerato allo stesso modo per i contributi che cerca di offrire alla sfera decentralizzata e non pianificata delle interazioni volontarie che costituiscono la vita di una persona giovane fuori dalla classe (le attività sportive, le feste, le relazioni con l'altro sesso...).

Così egli tende naturalmente a pensare che lo scenario del primo tipo sia più ragionevole e giusto del secondo, e generalizzando tenderà a favorire le politiche che comportano la pianificazione centralizzata piuttosto che i risultati non pianificati della libera interazione dei cittadini nel mercato. Simile è la «teoria del risentimento»: non solo negli anni della loro formazione, ma anche durante la loro vita lavorativa gli intellettuali tendono a vedersi trattati ingiustamente dai loro coetanei. Come Ludwig von Mises ha sottolineato in La mentalità anticapitalistica, gli intellettuali provano risentimento per i più elevati guadagni monetari che nella società capitalista accumulano uomini d'affari, atleti e uomini di spettacolo - quello stesso genere di persone, si noti, che in gioventù erano più popolari dei secchioni imbranati sui campi da gioco e alle feste - pur considerando la propria meno lucrativa occupazione di gran lunga più importante.

Se l'ultimo album del cantante Diddy vende milioni di copie mentre la magistrale storia del Liechtenstein in cinque volumi del professor Doddy vende 106 copie, tutte acquistate da biblioteche universitarie, il professor Doddy inizia a domandarsi se il libero mercato rappresenti il sistema più equo per distribuire le ricompense economiche.

Questo ci porta però alla «teoria del filosofo-re». È probabile che molte volte l'intellettuale veda il mancato apprezzamento del proprio lavoro come un'ingiustizia non solo nei propri confronti, ma anche verso gli altri: in altre parole, chi non preferisce l'opera degli intellettuali sarebbe responsabile anche di un grave danno nei confronti di se stesso. Per il loro stesso bene, quindi, agli individui non dovrebbe essere lasciata molta libertà di scelta, e gli esperti nel gestire gli affari umani dovrebbero trovarsi a dirigere le loro vite al posto loro.

L'intellettuale, fantasticando di essere egli stesso un tale esperto, si offrirebbe altruisticamente come volontario per svolgere questo compito. Qui siamo effettivamente in presenza dell'ideale del «filosofo-re», e con esso di un'altra possibile spiegazione del perché gli intellettuali tendano a sinistra: la prospettiva che l'incremento del potere statale gli possa fornire maggiori opportunità per applicare la proprie idee. Come Hayek suggerisce nel saggio Gli intellettuali e il socialismo, per l'intellettuale medio è del tutto ragionevole l'idea che le persone più intelligenti dovrebbero essere le uniche a dirigere tutto. Naturalmente questo dà per scontato che loro siano in generale capaci di gestire le cose meglio degli altri: un assunto che stranamente queste menti cosiddette indagatrici non sembrano disposte a mettere in questione.

L'intellettuale quindi si trastulla sempre con l'idea che le cose andrebbero molto meglio se solo tutti seguissero la visione del mondo che lui e i suoi colleghi hanno discusso nelle riviste accademiche. Come ha scritto Hayek ne La presunzione fatale «le persone intelligenti tenderanno a sopravvalutare l'intelligenza», e troveranno perfino scandalosa l'idea che l'intelligenza sia qualcosa che possa essere sopravvalutata. La cosa è invece del tutto possibile, dato che anche l'intelligenza dell'essere umano più brillante ha dei limiti. Riconoscerlo richiede una semplice dose d'umiltà, virtù che generalmente scarseggia tra gli intellettuali.

Pur mancando di umiltà, alla fine l'intellettuale non dovrebbe arrivare a vedere le fredde e dure dimostrazioni della propria estrema inefficacia come pianificatore sociale? Non necessariamente, almeno se sosteniamo la «teoria della testa fra le nuvole». Questa è probabilmente la teoria favorita dal non-intellettuale medio: per quanto intelligenti possano essere nelle materie teoriche, nelle questioni pratiche gli intellettuali sono considerati del tutto privi di buon senso e saggezza quotidiana. E poiché gli ideali di sinistra sono paradigmaticamente contrari al senso comune e scollegati dalla realtà, non c'è da sorprendersi che gli intellettuali siano attratti da essi. Infine, c'è la «teoria dell'interesse di classe», secondo la quale la classe dei professori, una volta messa da parte la calcolata ipocrisia del noblesse oblige, non è affatto la disinteressata Educatrice del Popolo come ama presentarsi. È solo un altro meschino gruppo di pressione, che lotta con gli altri animali nella giungla del welfare state per arrivare al capezzolo del governo. Avendo maggiori capacità di articolare le parole, riesce più facilmente a mascherare i propri reali motivi: si presenta infatti come un nuovo ceto sacerdotale, la cui religione socialista offre allo Stato una giustificazione per la sua esistenza in cambio di un'occupazione permanente nelle fabbriche statali della propaganda (scuole pubbliche e università), e dell'opportunità di elaborare a tavolino i piani che i funzionari statali applicheranno.

Il sinistrismo degli intellettuali è così facilmente comprensibile, dato che si tratta precisamente dell'ideologia che ognuno si aspetterebbe dalla classe dei cortigiani di Stato. Di fatto, è molto profittevole per un intellettuale sostenere le politiche di sinistra, dato che queste richiedono inevitabilmente programmi di lavoro per gli «esperti», cioè per gli intellettuali stessi.

Come tutte le spiegazioni ispirate dalla teoria marxista dell'ideologia, anche questa non deve però essere esagerata; nessun conservatore dovrebbe emulare la volgare inclinazione dei marxisti a respingere istintivamente tutti i punti di vista opposti al proprio usando argomenti ad hominem.

*Professore di filosofia alla Loyola Marymount University di Los Anegels

da legnostorto

venerdì, settembre 01, 2006

Le idee degli utopisti

di Lino Siciliano - Vladimir Bukovskij, dissidente sovietico ha pubblicato un libro di memorie dal titolo "Il vento va e poi ritorna" (1978), ricco di riflessioni originali e profonde.
Un libro che dimostra come l'utopia dell'uguaglianza porti alle aberrazioni del sistema che pretende di poter influire sulle idee stesse degli uomini, in seguito alcuni stralci estremamente interessanti.

Con grande interesse continuai a leggere, e mi rilessi tutti i socialisti utopisti, tutti quelli che riuscii a procurarmi. E rimasi sbalordito, in effetti tutte le loro utopie si erano realizzate nel nostro paese! O meglio si erano realizzate per quanto possibile tra gli uomini. Noi semplicemente fummo i piú zelanti e coerenti esecutori di queste utopie. Notate che tutte queste teorie presuppongono degli uomini straordinari, uomini onesti, obiettivi, che si preoccupano del bene comune, chissà dove sono andati a finire tutti i furfanti? Per questo è necessario isolare il nuovo stato dalle influenze esterne, ed eccovi cosí la cortina di ferro.

[...]

E infine, il principio piú importante di tutti gli utopisti: si ritiene sia sottinteso, che gli uomini nati e cresciuti sotto i nuovi ordinamenti saranno completamente diversi, uomini cioè adatti a questo regime. Ecco il loro errore fondamentale: credevano seriamente che l’uomo venga al mondo vuoto come un recipiente e malleabile come la cera, per cui, affermavano, non ci sarebbero stati piú delitti, scontentezza, invidia e cattiveria.

La fiducia straordinaria, ingenua e disumana di tutti i socialisti nella forza dell’educazione ha trasformato i nostri anni di scuola in un tormento, e ha coperto il paese di campi di concentramento. Nel nostro paese educano tutti, piccoli e grandi, e tutti debbono educarsi l’un l’altro. Riunioni, comizi, dibattiti, informazione sulla situazione politica internazionale, sorveglianza, controlli, misure collettive, subbotniki e competizioni socialiste. Per i casi piú difficili, lavoro fisico duro nei campi di concentramento, quello stesso lavoro cui aspirava Tolstoj. E come edificare in altro modo il socialismo? A quindici anni, io già capivo tutto questo. Chiedete anche adesso a un qualsiasi socialista occidentale: che fare in regime socialista con coloro che dissentono? Educarli, risponderà.

[...]

? straordinario, terribile e disumano questo sogno dell’assoluta uguaglianza di tutti. Appena esso s’impossessa delle menti degli uomini, subito sangue a fiumi e montagne di cadaveri, subito si comincia a raddrizzare i gobbi e a scorciare i lunghi.