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giovedì, agosto 31, 2006

L’onore perduto delle guerre moderne

di Vittorio Mathieu - All’inizio dell’età moderna i giusnaturalisti cercarono di definire con esattezza lo stato di guerra in opposizione allo stato di pace. Ci riuscirono fino a un certo punto, perché Leibniz a un certo momento fece notare che, in piena pace, si era sentito il bisogno di stabilire una tregua. Tuttavia fino alla Seconda guerra mondiale guerra e pace rimasero abbastanza separate. Poi si cominciò a parlare di guerra fredda, di Stati satelliti, di guerre interne di liberazione, e il diritto internazionale non riuscì più a far chiarezza. Oggi, col terrorismo, tutto è opinabile.

La parola “terrorismo” si diffuse con il Terrore rivoluzionario del 1792-93, ben definito da una frase di Robespierre: “Il nemico esterno ed interno è tutt’uno”. Oggi un terrorismo molto più vario impedisce di distinguere tra guerre pubbliche e guerre private, organizzabili da chiunque disponga dei fondi necessari: grazie, magari, al commercio di stupefacenti. Fin dall’antichità la guerra aveva assunto proprie leggi: in genere per convenzioni tacite rese poi esplicite e rispettate fin quando qualcuno non le violava. I cavalieri, ad esempio, evitavano di ferire volontariamente i cavalli. I prigionieri avevano la vita salva, soprattutto in vista di un riscatto. I mezzi di comunicazione, cioè gli araldi, erano rispettati. Poi venne la Croce Rossa, poi la Convenzione di Ginevra, e tutto questo è ancora in vigore, ma con eccezioni sempre più gravi, che nei terroristi divengono la regola.

Come dovrà comportarsi chi vuole rispettare certi valori? A una potenza superiore è inutile appellarsi. La sola speranza è che i contendenti capiscano che è loro interesse rispettare la reciprocità: io ho verso di te gli stessi diritti che tu hai verso di me, anche in guerra. Ma questo i terroristi non lo riconoscono assolutamente perché, ci credano o no, dicono di essere il bene contro il male; e sarebbe incongruo riconoscere al male diritti simmetrici a quelli del bene. Guerre asimmetriche ci sono sempre state. Possono fornirne un esempio le guerre contro i pirati, in cui si distinse Pompeo il Grande. Ma oggi si preferisce mettere la testa sotto la sabbia, e fingere di non essere in guerra bensì di svolgere azioni di polizia. I comportamenti inumani si può ammettere che li tengano persone incivili o incapaci di intendere, ma esse non cessano per questo di essere uomini, e come tali vanno trattate. Le truppe spedite nelle zone di guerra sono perciò sempre “in missione di pace”, e devono rispettare il codice militare di pace, non di guerra. La sola superiorità che possiamo rivendicare – da dimostrarsi con i fatti – è comportarci secondo la legge anche contro chi la viola.

C’è in questo modo di pensare qualcosa di giusto, che impedisce di vedere il moltissimo che c’è di sbagliato. I ragionamenti dei filosofi potrebbero forse correggerlo, ma sono lunghi, laboriosi e, qualche volta, criptici. Meglio ragionare, sì, ma affidandosi al buon senso: a una sensibilità il più possibile disinteressata, che faccia astrazione dalla situazione in cui ci troviamo individualmente – di pericolo o di tranquillità, di forza o di debolezza – e consideri ciascuna situazione per quello che è in sé, chiunque vi sia implicato. Ciò servirebbe a ridurre l’ipocrisia e a stabilire le basi di un accordo con tutti coloro che sono disposti ad accordarsi. Con gli altri è inutile.

da Emporion

mercoledì, agosto 30, 2006

Il nuovo ordine mondiale

di Lino Siciliano - Due elementi, che apparentemente, non hanno niente in comune sono alla base di quello che sta succedendo e di quello che potrebbe succedere in Occidente e in Italia in particolare.

Il primo è la teoria del complotto "nata in Europa nel XII secolo e poi esportata in America, la teoria del complotto accompagna da 900 anni i grandi eventi storici. Spesso è innocua perché infondata. Ma quando chi la coltiva va al potere, come Hitler e Stalin, produce genocidi e atrocità, dall'Olocausto al Gulag" spiega Daniel Pipes "direttore dell'Istituto di studi mediorientali a Filadelfia", non dimentichiamo come molti abbiano attribuito la caduta delle torri gemelli alla CIA o reputato falso l'allarme di Londra, addirittura si nega che l'uomo sia arrivato sulla luna. Per creare il sospetto non occorrono prove, basta insinuare il dubbio.

Il secondo è il blocco internazionale antimperialista formato da gruppi terroristici e da stati islamici, nonché da paesi sudamericani, europei ed asiatici che s’ispirano al comunismo. Questo grande blocco ha avuto la sua ufficializzazione, secondo Magdi Allam, con l’incontro avvenuto tra i presidenti, rispettivamente di Iran e Venezuela, Ahmadinejad e Chavez. Si sta assistendo alla formazione di una rete di contropotere globalizzato che coniuga il fanatismo religioso islamico con l’odio ideologico comunista contro Usa, Israele e il sistema capitalistico occidentale.
E questa commistione è già presente nella zona della 'tripla frontiera' sudamericana, quella al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay dove vivono circa 25mila arabi e da qui, secondo la CIA arrivano sovvenzioni in Libano e in Cisgiordania.

Ma forse più emblematiche sono le parole di Nasrallah: "Aspiriamo a un progetto di cooperazione tra i movimenti di resistenza del mondo, e in questo Chavez ci è più vicino dei leader arabi". E ancora: "Consideriamo la [nostra] resistenza ad Israele l'inizio di una riscossa, e chiediamo a tutti i movimenti di resistenza di unire le nostre forze per portare la lotta all'imperialismo ad un nuovo livello".

Se si pensa agli orrori del XX secolo si ha chiara l'idea di cosa porta l'ideologia. Crociate, caccia alle streghe, roghi e il terrorismo islamico invece ci danno le dimensioni del fanatismo religioso, entrambe cose che l' Europa, seppur in epoche diverse, ha subìto.
Ma oggi, oltre a essere unite queste due forze, sono più subdole perché non c'è un singolo stato da affrontare che compatta i cittadini, ma permeano gli stati stessi sia tramite forti immigrazioni sia tramite elementi di estrema sinistra, non dimentichiamo cosa ha dovuto subìre l'Italia a causa del terrorismo delle BR.
Questo farà in modo che venga portata avanti la "guerra asimmetrica" come ha spiegato sul Sunday Times, Michael Clarke, docente di Studi sulla difesa al King’s College di Londra, "un esercito delle milizie non batterà mai un buon esercito convenzionale, ma può impedire alla forza convenzionale di vincere sul campo mentre il suo governo è battuto politicamente nelle cancellerie di tutto il mondo", basta vedere come è stato trattato Israele che si è difeso dai missili di Hezbollah.
Non devono necessariamente vincere ma destabilizzare, lo stato tutto teso a contrastare il terrorismo, non potrebbe avere abbastanza uomini e mezzi anche per la criminalità, organizzata o meno, che si avvantaggerebbe e in una nazione economicamente non forte potrebbe portare al collasso economico.

Oggi non si riesce nemmeno a tenere in carcere criminali comuni, cosa succederebbe in un contesto simile?
Uno scenario da incubo che potrebbe materializzarsi, senza troppi sforzi e senza che necessariamente ci sia una mano a guidarla, e ancor peggio non occorrono un numero massiccio di uomini basta vedere gli attentati di New York, di Londra o di Madrid da quante persone i commandos erano costituiti e soprattutto non avevano una regìa ma erano cellule autonome più difficili da intercettare.
E a differenza dei terroristi "autoctoni" (BR, IRA, ETA) non hanno la necessità di un appoggio della popolazione, anzi sarebbe la più colpita, una iraqizzazione dell'occidente come passo per il collasso dell'economia che è la sua vera forza.

martedì, agosto 29, 2006

La fabbrica degli errori - breviario di patologia giudiziaria

Troppo spesso l’errore giudiziario viene considerato un evento trascurabile, elemento endemico di una giustizia che non potrà mai essere perfetta; in realtà, non tutti gli errori sono uguali, e se alcuni sono frutto del caso, altri non sono che il prodotto naturale di un sistema che non funziona e che non viene sottoposto a controlli e revisioni: quello che Mauro Mellini, più volte deputato radicale, avvocato e già componente del Consiglio Superiore della Magistratura, definisce “La fabbrica degli errori” nel suo ultimo libro pubblicato dall’editore Koiné.

In questo “breviario di patologia giudiziaria”, come recita il sottotitolo, Mellini mette il luce la naturale predisposizione della giustizia italiana all’errore. Maxiprocessi, uso indiscriminato di pentiti come fonti di prove e norme volutamente ambigue sono solo alcuni elementi del quadro: ad amministrare il tutto ci sono infatti le persone, i magistrati sempre meno preparati, i P.M. mossi da ansie giustizialiste, la figura di giudici “lottatori” coinvolti di volta in volta in campagne tematiche antimafia, anticorruzione o antiterrorismo e, non ultimo, il “clima” sociale e politico che condiziona i processi. Il sistema versa in condizioni talmente gravi, con processi legati a condizionamenti esterni di natura politica, culturale e sociale, che, secondo Mellini, “anche per la giustizia è il tempo l’unica medicina che, talvolta, può essere efficace, consentendo il diradarsi delle nebbie che le passioni fanno levare avanti agli occhi di chi giudica”.

Un vero e proprio paradosso, acutamente rilevato dall’autore: la lunghezza eccessiva dei processi, uno dei grandi problemi della giustizia italiana, finisce per essere l’unica via di salvezza dall’errore definitivo. Su tutti, un dato appare inquietante: i fatti da cui prende il via l’attenta analisi dell’autore sono noti a tutti, fanno parte delle cronache quotidiane. Eppure, si avverte nel Paese l’assenza di una vera cultura garantista e, accanto al triste proliferare di errori giudiziari, è decisamente scarsa la letteratura in materia; in questo senso è nostro auspicio che l’opera di Mellini non rappresenti solo una testimonianza, ma il punto di partenza per una seria e ampia riflessione su un’emergenza tutta italiana.

da neolib.it

lunedì, agosto 28, 2006

I motivi dell'invio del contingente in Libano

di Lino Siciliano - "Un deputato italiano invita Aoun a Roma" questo il titolo del giornale libanese "L'Orient - Le Jour", ma se il titolo è già eloquente, l'articolo spiega i motivi della passeggiata e delle parole di D'Alema.

Il deputato italiano Ali Rachid, in visita in Libano, si è recato ieri a Rabieh dove si è intrattenuto con il generale Michel Aoun in presenza di Gebran Bassil, esponente della CPL. Al termine dell’incontro Rachid ha comunicato di aver rivolto un invito al generale da parte del Parlamento italiano.
"Tengo, d’altra parte, a esprimere il nostro appoggio alle posizioni del generale Aoun; abbiamo esaminato con lui la possibilità di rafforzare i legami tra il suo gruppo parlamentare e i parlamentari italiani."
Ali Rachid si è in seguito richiamato alla partecipazione dell’esercito italiano all’Unifil, chiarendo che i soldati italiani devono essere percepiti come truppe amiche: "Il presidente del consiglio italiano, del resto, lo ha dichiarato ufficialmente; le truppe italiane si dispiegheranno nel Libano meridionale soltanto con l’accordo di tutti i partiti libanesi, Hezbollah compreso".
Il deputato italiano ha riconosciuto che la missione affidata alla nuova forza è ancora un po’ vaga. "La risoluzione 1701 si presta a diverse interpretazioni. Ma sono in corso concertazioni europee per giungere a un’interpretazione unitaria. Ad ogni modo, il governo italiano si pone a fianco del diritto degli arabi", ha aggiunto.
Ali Rachid ha, in seguito, definito grave la situazione attuale. "Il piano era chiaro", dice. "Per Israele si trattava di sconfiggere in pochi giorni lo Hezbollah e di disarmarlo, per farne un partito come gli altri. Ma la resistenza dello Hezbollah ha cambiato gli esiti del gioco e il piano israeliano è fallito. Oggi, tutti sono ancora sotto choc. Ma l’Italia può svolgere un ruolo positivo e sta a fianco del popolo libanese; Vuole contribuire alla ricostruzione e all’arresto delle aggressioni israeliane. Se tale posizione è considerata neutrale, allora siamo neutrali…"

Credo che altre parole siano superflue, questo il motivo per cui i pacifisti e la sinistra radicale sono favorevoli all'invio di un contingente di "pace".
D'Alema, che ha il suo elettorato a sinistra, cerca di prendere consensi anche in quell'area radicale che fino ad oggi è stata appannaggio dei vari Bertinotti e Diliberto, insomma una mossa elettorale sulla pelle dei nostri soldati.

venerdì, agosto 25, 2006

Un capitolo di storia dimenticato

di Lino Siciliano - Alla fine di aprile del 1945 gli americani allestirono, nei pressi di Pisa, alcuni campi di prigionia, destinati ad ospitare migliaia di prigionieri di guerra tedeschi, russi, slavi e italiani della RSI. L'esistenza di Coltano fu taciuta all'opinione pubblica fino a metà settembre 1945, dopo che gli americani il 30 agosto trasferirono alle autorità italiane la giurisdizione di quel campo.

Ma pare che le nostre intellighenzie non vogliano parlare dei campi di concentramento, dove sono finiti i nostri compatrioti, i famigerati campi PWE (prisoners of war estate), la gravità dei fatti è dovuta anche al fatto di essere compiute a guerra finita, solo per umiliare ed uccidere il nemico.
In Italia nella sola toscana esistevano i campi PWE 334, 336, 337, 338, 339, in particolare il campo di Coltano (337) si distinse per particolare durezza dove i detenuti erano scalzi, spesso nudi e malati, furono in pochi a sopravvivere, secondo le autorità in 6 mesi morirono nel solo campo 337 oltre 32.000 persone, la maggior parte per fame (i pochi reduci raccontano le giornate al pascolo quando per pranzo veniva servita l'erba dei campi di Coltano all'interno del recinto).

A Coltano passò anche il poeta anticonformista americano Ezra Pound, incarcerato per crimini di guerra senza mai aver imbracciato il fucile, fu tenuto in condizioni particolari: in un recinto di filo spinato soggetto alle intemperie e con un particolare sistema di lamiere che lo "bruciavano" riflettendo i raggi solari. Fu evidentemente un colpo troppo duro per la geniale mente del 60enne Pound che iniziò ad accusare claustrofobia, attacchi di panico e crisi isteriche, problemi che portarono le autorità americane a rinchiudere Pound per 12 anni in manicomio.

I morti nei campi PWE in pochi mesi sono diverse decine di migliaia, le autorità italiane li chiudono nei primi giorni di novembre registrando i dati, dati che non verranno mai pubblicizzati se non su qualche libro di stampa alternativa, tra questi si può trovare il testo "Coltano 1945, un campo di concentramento dimenticato" di Pietro Ciabattini (Mursia, 1995).

A queste opere di "pace e democrazia" vanno aggiunte le stragi partigiane (vedi Schio o Strà), il dramma delle foibe e le violenze a fascisti o presunti tali nel corso dei primi mesi seguenti alla guerra (circa 90.000 morti), dimostrazione di come l'odio e la violenza non hanno colore politico e come la storia dei vinti venga volutamente dimenticata.

giovedì, agosto 24, 2006

Una verità scomoda

di Lino Siciliano - Correva l'anno 1956, era il 23 Ottobre, il luogo è l'Ungheria. Inizia la rivolta contro l'Urss, ma l'armata rossa dopo pochi giorni invade il Paese e viene sedata nel sangue, morirono 25.000 ungheresi, 7.000 soldati sovietici e 250.000 magiari dovettero fuggire in occidente. La "rivolta d'Ungheria" era finita.

Rimarrà nell'area d'influenza sovietica fino al 1989, anno della caduta della cortina di ferro, dopo che vi fu annessa alla fine della seconda guerra mondiale.

Ma deve far riflettere la presa di posizione di alcuni esponenti comunisti di allora.
Palmiro Togliatti disse: " mia opinione che una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della civiltà tutti i popoli".
Giorgio Napolitano attuale Presidente della Repubblica (nel 1956 nel Comitato Centrale del PCI) condannò come controrivoluzionari gli insorti ungheresi, su L'Unità si arrivò persino a definire gli operai insorti "teppisti" e "spregevoli provocatori".

Nell'anniversario di quell'evento l'Ungheria ha invitato i vari capi di Stato tra cui proprio Napolitano in rappresentanza dell'Italia, ma i reduci del '56 hanno fortemente osteggiato la presenza del nostro Presidente. E' come se per commemorare la shoah Israele invitasse un ex capo nazista, l' "ex" è riferito al "capo" e non al "nazista" perché Napolitano non ha mai rinnegato o condannato il suo passato comunista.

Nel 2000 in Austria si formò una coalizione tra il partito popolare OVP e il partito di destra FPO considerato estremista e xenofobo, immediatamente in Europa ci fu addirittura un periodo di "valutazione" e le cancellerie facevano a gara a tenere l'Austria lontana, ma non in base a qualche legge che aveva emanato ma per la sua connotazione politica, un processo alle intenzioni. La stessa Europa che oggi si sbraccia per aiutare il libano al cui governo ci sono gli Hezbollah o che invita al dialogo l'Iran che vuole eliminare Israele dalla cartina geografica non meno di Hitler.

Oggi l'Italia, quantomeno nei confronti dei Paesi dell'Est, si trova nelle stesse scomode condizioni con un Presidente "non presentabile". Perché bisogna sapere che nei paesi dell'ex cortina di ferro quello che per noi è il fascismo per loro è il comunismo, tanto che quando a Bruxelles si propose di abolire il simbolo della croce uncinata nazista, loro proposero di abolire il simbolo di falce e martello, naturalmente non se ne fece nulla.

In questo scenario kafkiano a rappresentare l'Italia in Ungheria probabilmente sarà un sostituto o se sarà il nostro Presidente sarà fischiato e come rappresentante della nazione di riflesso saremo fischiati tutti noi italiani dando una idea distorta del Bel Paese. Già questo sarebbe sufficiente per chiederne le dimissioni.

Lo stesso Napolitano definì "revisionismi fuori tempo massimo" quando si parlava delle Foibe ed ebbe il coraggio di dire "gli italiani dall'Istria se ne sono andati di propria spontanea volontà" in una lettera aperta mandata a Liberazione e al Manifesto nel 2004.
Quindi, 10.000 persone vengono sterminate e altre 350.000 lasciano case e averi di "spontanea volontà" e giunti in Italia vengono accolti con ostilità dai "compagni" rei di aver lasciato la meravigliosa terra di Tito, viene definito "revisionismi fuori tempo massimo".

Ma di tutto questo quanti giornali ne hanno scritto o in quali televisioni ne hanno parlato? In pochi, e non certo perché sia una cosa secondaria, non meno della passeggiata di D'Alema in Libano.
Dire che Napolitano non rappresenta né l'Italia né l'unità del Paese è un mero eufemismo. Dovrebbe essere da contrappeso alle decisioni del governo e invece funge da stampella.
Chiederne le dimissioni è e dovrà essere un dovere morale non solo per noi italiani ma anche per quello che ha rappresentato e difeso negli anni della militanza e di cui non accetta un giusto revisionismo storico.

lunedì, agosto 21, 2006

Margaret Thatcher: perché ne parliamo ancora

di Cristina Missiroli - Se gli anni Sessanta furono gli anni dei Beatles, gli anni Ottanta sono stati per la Gran Bretagna gli anni di Margaret Thatcher. La Signora di Ferro ha lasciato un’impronta indelebile, come i ragazzi di Liverpool. Nulla è più stato uguale. Senza di lei Tony Blair e il suo New Labour non sarebbero mai esistiti. E se Silvio Berlusconi avesse davvero fatto come lei, oggi, forse, non avremmo Romano Prodi e il suo governo vetero-sinistro a Palazzo Chigi.

La rivoluzione thatcheriana ebbe successo non solo perché fu combattuta al momento giusto. Ma anche perché la Signora ci credette dall’inizio e fino in fondo. Quindici anni più tardi, Alistair McAlpine, suo consigliere, scrisse un libello dal titolo The Servant, oggi introvabile, tradotto da Mondadori col titolo Il nuovo Machiavelli. Quel volumetto spiega bene il rapporto che, nella mente di chi lavorò al fianco della Thatcher, esiste e deve esistere tra il Principe e l’Idea. «L’Idea è il pensiero filosofico che sta alla base di tutte le azioni del Principe. Da quest’ultima il Principe trae la propria forza. Il Principe ha bisogno dell’Idea allo scopo di prendere via via le decisioni necessarie per l’acquisizione durevole del dominio sul territorio. Sottraete al Principe l’Idea, e di lui non resterà più nulla».

È il rapporto privilegiato e fortissimo con l’Idea ciò che caratterizza l’intera avventura governativa della Thatcher. È per questo che, prima tra i politici di professione, è stata scelta per il Feuilleton di Ideazione. Diceva: «In politica, se vuoi un bel discorso chiedilo ad un uomo; se vuoi i fatti chiedili ad una donna». Ma diceva anche: «Perché scalare le vette della filosofia? Perché ne vale la pena». Senza teoria, la prassi politica diventa galleggiamento. Diventa qualcosa d’incomprensibile e non finalizzato. Un po’ come accadeva in Italia. Scrive la Thatcher a proposito di Giulio Andreotti nella sua autobiografia: «Questo membro apparentemente indispensabile di tutti i governi italiani rappresentava una linea politica che non potevo condividere. Sembrava avesse una reale avversione per i principi, anzi la profonda convinzione che un uomo di principi fosse condannato ad essere ridicolo». Il legame strettissimo tra teoria e prassi, il contatto costante con i think tank che elaborarono la base teorica della sua azione, rende perciò la Thatcher un politico-filosofo. Come Ronald Reagan, ad esempio. E molti altri a cui la nostra rivista dedicherà, in un futuro prossimo, queste stesse pagine, destinate fino ad oggi prevalentemente a maestri del pensiero.

Un ciclone sul paese e sul sistema dei partiti

Forse un po’ ce lo siamo dimenticati, ma nel 1979 la signora Thatcher è piombata sulla Gran Bretagna come un terremoto. E con pari delicatezza ha squassato la nazione, annunciando quel che nessuno aveva mai osato prima. Che l’Inghilterra aveva vinto la guerra ma era come se l’avesse perduta. Che dal 1945, proprio quando i guai sembravano finiti, aveva smesso di essere una grande potenza. Che aveva perso l’impero. Che doveva scegliere di diventare qualcos’altro.

Con tutta la ruvidezza per la quale poi è diventata proverbiale, la Lady di Ferro ha costretto il paese a guardare in faccia la realtà. Come spesso accade, l’inizio del rinascimento coincise con il punto più basso toccato dalla nazione. Era l’inverno tra il 1978 e il 1979. A causa degli scioperi, i morti rimanevano insepolti e l’elettricità era razionata. Gli inglesi, con il morale sotto le scarpe, erano pronti alla svolta. Margaret Thatcher fiutò il vento che cambiava e rivelò la sua ricetta: iniziativa economica individuale, rispetto delle leggi, orgoglio nazionale, disciplina individuale, ordine. Erano i valori della classe media da cui proveniva. Presto sarebbero stati i valori nazionali. Quei valori la portarono, prima donna nella storia britannica, al numero 10 di Downing Street. Là sarebbe rimasta fino al 1990.

Quando la Thatcher raccolse il governo inglese, il paese era allo stremo, la stampa definiva la Gran Bretagna il “grande malato d’Europa”. Con la forza dell’Idea, la Signora inventò la sua rivoluzione. Durante la recessione del 1980-1982, si rifiutò di seguire la teoria economica keynesiana, allora dominante, che imponeva di stimolare la domanda. Invece prese di petto la spesa pubblica, l’inflazione, i sindacati. L’accusarono di aver inferto all’Inghilterra un bagno di sangue. Contro tutto e tutti ingaggiò uno storico braccio di ferro con i sindacati durante lo sciopero dei minatori. Alla fine vinse, tirandosi dietro l’odio (che perdura tuttora) della sinistra mondiale. E mentre gli intellettuali e i laburisti sbraitavano, la Thatcher cominciò a scuotere le coscienze degli inglesi. Invece di farsi intimorire dalla campagna stampa e dall’ostracismo dell’intellighenzia, spiegò che «aver pensato di curare l’Inghilterra col socialismo era come aver tentato di curare la leucemia con le sanguisughe». Che per ridistribuire ricchezza occorre prima produrla. Che questo non era compito dello Stato ma degli individui. Perciò lo Stato si sarebbe fatto da parte e avrebbe lasciato ai cittadini spazio, responsabilità, decisioni. Perciò lo Stato avrebbe venduto aziende e privatizzato i servizi non essenziali, privilegiando l’azionariato diffuso e incoraggiando il risparmio della classe media.

La Thatcher abolì il controllo sui movimenti di capitale, ridusse le imposte sulle società, tenne costante il valore della sterlina, utilizzando anche impietosamente l’arma dei tassi d’interesse. Fino a che la deregulation non attirò decine di istituzioni finanziarie straniere a Londra e molte sterline nelle tasche di giovani intermediatori inglesi e l’Europa, con il suo mercato unico, divenne un enorme supermercato per i servizi finanziari britannici. Per la gioia dei grandi investitori della City. Ma non solo. In quegli stessi anni, gli operai impararono che voler comprare una casa non è un’infamia, ma piuttosto una scelta di dignità e buon senso. E gli inglesi impararono che aver battuto i nazisti per poi farsi sconfiggere dai sindacati non solo era folle, era ridicolo.
Travolti da un ciclone del genere, gli avversari della Signora non si sono mai del tutto ripresi. I laburisti per primi. Appena cominciarono a capire vagamente ciò che stava accadendo, si resero conto con orrore che la Thatcher non si sarebbe accontentata di inseguirli di sconfitta in sconfitta. Intendeva convertirli. Guardare Blair per credere. Anche gli amici, però, non si sono più ripresi. Quando i conservatori capirono a chi avevano affidato le redini del partito era ormai troppo tardi per tornare indietro. A nulla serviva rimpiangere Disraeli e il suo conservatorismo caritatevole: il partito Tory, come lo avevano conosciuto fino ad allora, era sparito per sempre. Sotto la guida della figlia del droghiere di Grantham, il partito conservatore trascese i limiti della upper class che l’aveva prodotto: cercò voti ovunque, anche nelle classi borghesi o lavoratrici. E, quel che apparve più sorprendente, li trovò. Per i Tory era una folgorazione, per i laburisti uno shock. Perché alla fine degli anni Settanta tutti i partiti inglesi si professavano, in pubblico, interclassisti. Ma non era vero. Non ancora. La working class votava per il Labour, gli intellettuali brontoloni si dividevano tra liberali e social-democratici. E le élite tradizionali votavano conservatore.

La rivoluzione thatcheriana spazzò via certezze e steccati. I conservatori cambiarono linguaggio, stile, regole. Con orrore di qualche Lord, apparvero candidati che assomigliavano a venditori di macchine usate. Che parlavano come venditori di macchine usate. Che si rivolgevano a cittadini che compravano macchine usate. Ad ascoltarli, nei comizi di periferia, arrivarono altri inglesi, alla guida di macchine usate. Quegli stessi inglesi, dopo la cura Thatcher, sarebbero diventati proprietari di casa, riscattando la propria abitazione grazie ad una legge del governo conservatore. Certo, i vecchi Tory storcevano il naso, dicevano di detestare quell’insopportabile signora, con la sua aria da signorina Rottermeier. Per lei, i suoi stessi compagni di partito, coniarono una serie infinita di appellativi e nomignoli, da usare nelle conversazioni maschili al club, tra un sigaro e un whisky. Finirono addirittura a chiamarla per sigle, necessarie – dicevano – per semplificare il discorso, data la frequenza con cui le imprecazioni ricorrevano nei dibattiti. La chiamavano “Tina”, che sta per There is no alternative, non c’è alternativa. Oppure “Tbw”, That bloody woman, quella maledetta donna. Però, in fondo al cuore, l’amavano profondamente. Come i nobili d’un tempo amavano il proprio fattore: poteva non essere simpatico, ma era indispensabile per amministrare con frutto le tenute.

Venerata, ammirata, temuta, Margaret Thatcher non è mai stata, però, del tutto accettata dall’opinione pubblica britannica. Colpa dell’immagine di donna rigida e perfetta, senza cedimenti umani o pigrizie inglesi. Rigorosa anche nei casi in cui la sua politica finì per essere meno drastica nei fatti che nelle parole. Come nella riduzione della spesa pubblica. Lo sapeva. E si consolava dicendo: «Coloro che sono fatti per piacere sono portati naturalmente al compromesso. E non raggiungeranno gli scopi che si prefiggono». E ancora: «Essere un primo ministro è un lavoro solitario. Non si può governare stando in mezzo alla folla».
Quando nel 1990 fu costretta a lasciare il governo e la guida del partito, fu soprattutto perché ormai gli inglesi avevano ritrovato la dignità, la voglia di primeggiare, di lottare. Ma dopo tutto quello sforzo, avevano probabilmente voglia di rilassarsi, di cedere alla pigrizia inglese e di affidarsi di nuovo alle cure dello Stato. Almeno un po’.
Reagan e Thatcher: la strana coppia
Il 1979, quando la Thatcher arrivò al governo, non era un anno buio solo per la Gran Bretagna. Era il tempo della seconda crisi petrolifera, della rivoluzione iraniana, dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. La guerra fredda era al culmine, i sovietici piazzavano i loro missili contro le democrazie libere. Con tanti guai in patria, la Thatcher avrebbe dovuto prepararsi a gestire anche delicate crisi internazionali. Le avrebbe quasi sempre gestite in prima persona. Guardando con sospetto i ministri degli Esteri, fedele al radicato pregiudizio inglese che deriva da questo bislacco ragionamento: se il ministro dell’Agricoltura fa gli interessi degli agricoltori, il ministro degli Affari Esteri che fa, se non gli interessi degli Stati stranieri? Nella Thatcher questo sospetto sopravvisse, all’ennesima potenza. Tutti i collaboratori che si occupavano di politica estera furono accusati a turno, almeno una volta, di essere troppo morbidi, troppo trattativisti, poco meno che traditori.

I sospetti maggiori, come è noto, la Lady di Ferro li concentrava sul processo di unificazione europea così come si andava sviluppando in quegli anni. Non le piacevano neppure gli uomini che la stavano costruendo. Non le piacevano gli italiani, troppo infidi. Non le piacevano i tedeschi, troppo pericolosi. Non le piaceva neppure Giscard d’Estaing che pure era di destra, troppo burocratico e freddo. Eppure la sua analisi, fredda e lucida, andrebbe riletta oggi. Soprattutto dovrebbero rileggerla gli euroentusiasti, per riconoscerle, almeno col senno di poi, una qualche ragione. Eppoi, altro che Europa. La Thatcher aveva da occuparsi dell’Impero. L’Impero che era perduto, ma che sotto la sua guida non fu abbandonato. Ancora oggi le ex colonie formano una rete invidiabile. Non solo commerciale, ma anche politica. Non esiste presidente o sovrano di uno qualsiasi degli staterelli del Commonwealth che non abbia in ufficio la foto con la regina a Buckingham Palace. Il nuovo ruolo internazionale è stato costruito, inventato, preservato. Non subìto. Se ne accorsero a loro spese gli argentini, rigettati duramente nelle acque delle Falkland che avevano osato occupare.

Ma nel 1979, la Thatcher ancora non sapeva che avrebbe avuto presto un partner fidato, che l’avrebbe accompagnata per otto degli undici anni del suo mandato. Pochi mesi dopo il suo avvento al numero 10 di Downing Street, infatti, gli americani mandarono alla Casa Bianca l’ex attore Ronald Reagan. Molti anni dopo, la Thatcher scriverà: «Ricordo ancora vividamente il sentimento che provai quando seppi dell’elezione del presidente Reagan. Ci eravamo incontrati e avevamo discusso le nostre idee politiche alcuni anni prima, quando era ancora governatore della California. Seppi subito che insieme avremmo potuto affrontare il compito che avevamo di fronte: rimettere in piedi i nostri paesi, restituire orgoglio e valori, fare del nostro meglio per creare un mondo migliore e più sicuro». Così sarebbe stato. E non è un caso se il momento più toccante della cerimonia funebre di Reagan rimarrà per sempre il saluto della sua amica Maggie di fronte alla bara. Ancora oggi i nomi della Signora e dell’Attore sono sempre accomunati. Come maestri della rivoluzione liberale, da chi ancora li ammira e li studia. Come affamatori del popolo in nome del capitalismo e del liberismo, da chi ancora sogna Fidel Castro e Che Guevara. Eppure la loro fu una relazione complicata e tempestosa. Li accomunava la convinzione comune della superiorità morale (sì, proprio morale) delle società fondate sulla libera impresa e l’imperativo che ne seguiva: combattere a livello internazionale la minaccia del comunismo sovietico.

C’era anche di più: i due, quando s’incontravano si divertivano insieme, erano diventati amici e godevano della compagnia reciproca. Reagan ammirava la Thatcher per il suo equilibrio e la sua intelligenza d’acciaio. La Lady di Ferro era affascinata dall’umorismo del presidente americano e dalle maniere gentili. Eppure non potevano essere più diversi: per carattere e modo di lavorare. Lei grande accentratrice, lui abilissimo nel delegare. Lei sempre al chiodo senza perdere una battuta, dormendo al massimo quattro ore per notte e soffrendo come un cane quando le vacanze di qualche collaboratore inceppavano la sua efficientissima organizzazione giornaliera. Lui caparbiamente fedele alla sua illustre battuta: «È vero che il lavoro duro non ha mai ucciso nessuno. Ma perché correre il rischio?». Lei tutta immersa in una visione dura, oscura e negativa della natura umana. Lui inguaribile ottimista, con l’allergia dichiarata per il pessimismo che guastava gli animi e l’economia. Con un approccio tanto diverso, nessuno stupore che, più di una volta, tra i due si sia giunti a momenti di enorme tensione. Lo scontro più violento ci fu all’epoca della guerra nelle Falkland. Il dittatore argentino non aveva capito chi aveva di fronte e, impadronendosi delle isole sotto il dominio britannico, scatenò le ire della Thatcher e la guerra che ne seguì. L’Inghilterra fece da sé e vinse. Ma la Lady di Ferro si aspettava dall’alleato un aiuto, invece la Casa Bianca si offrì al massimo di negoziare. Lei uscì dai gangheri, lo prese come un tradimento e glielo fece sapere. Eppure nemmeno in quell’occasione la Signora riuscì a tenergli il broncio troppo a lungo.

Un affare molto più serio fu, invece, quello del 1986. Quanto toccò alla Thatcher riportare Reagan con i piedi per terra. Nell’incontro di Reykjavik il presidente americano sembrava sul punto di accettare la proposta di Mikhail Gorbaciov di far piazza pulita di tutte le armi nucleari. La Lady di Ferro pensò che il suo amico fosse uscito di senno.

Certo, era stata lei a convincerlo che Mr. Gorbaciov era un uomo con cui si potevano fare affari. Per il leader russo, la Signora avrebbe sempre mantenuto una certa passione. Ma l’accordo che si preparava a Reykjavik non solo era assurdo: era pericoloso. Le armi nucleari ormai esistevano e non si poteva far finta di non averle inventate. E, soprattutto, quelle armi americane avevano mantenuto la pace in Europa, evitando che l’urss facesse valere la propria supremazia. Per la Thatcher c’era il grave pericolo che Reagan cadesse nella trappola sovietica. Bastò un incontro a Camp David per riportarlo sulla retta via del dialogo senza cedimenti. Grazie a questa strategia, scriverà la Thatcher dopo la caduta del muro di Berlino, «Mr. Reagan ha vinto la guerra fredda senza sparare un colpo». Malgrado questi battibecchi, i due, insieme, segnarono quegli anni e gli anni a venire. Ed è facile capire il perché di tanta sintonia di fondo. Reagan e Thatcher erano entrambi outsiders della vita politica del loro tempo: due inguaribili ottimisti, inizialmente sbeffeggiati e trattati con sufficienza dall’establishment dei loro stessi partiti, ancora affogati nel vecchio conservatorismo pessimista e nostalgico dei tempi andati. Trovarono conforto l’uno nell’altra, s’incoraggiarono nei momenti più difficili, avvalorarono a vicenda le loro tesi e azioni politiche, in patria e all’estero. La loro rivoluzione parallela sarebbe stata più difficile se condotta in solitario.

da Ideazione

sabato, agosto 19, 2006

Ritenere Damasco responsabile

di Daniel Pipes - "Ci sarà una forza internazionale [in Libano] poiché tutti gli attori chiave lo vogliono", ha di recente asserito un funzionario americano. Egli sembra avere ragione, dal momento che perfino il governo israeliano ha aderito al piano, annunciando che "sarebbe d'accordo nel prendere in considerazione lo stazionamento di una forza d'interposizione composta da militari provenienti da Stati membri dell'Unione europea".

Gli attori chiave potrebbero "volerla", ma una simile forza di certo fallirà, proprio come successe una volta in precedenza, nel 1982-84.

Ciò avvenne quando truppe americane, francesi e italiane furono dispiegate in Libano per costituire un zona cuscinetto per difendere Israele dall'anarchia e dal terrorismo libanesi. La "Forza Multinazionale" fallì nell'intento in seguito all'attacco perpetrato da Hezbollah contro i militari dell'MNF, contro ambasciate ed altri impianti, causando l'ignominiosa fuga dell'MNF dal Libano. Succederà ancora la stessa cosa. All'epoca, gli americani ed altri non consideravano Hezbollah un loro nemico e così ancor oggi, malgrado la guerra al terrorismo. Un recente sondaggio Gallup rileva che il 65 per cento degli americani reputa che il governo statunitense non dovrebbe prendere posizione nei combattimenti in corso tra Israele e Hezbollah.

Tra le altre idee, egualmente pessime, per porre fine all'anarchia in Libano meridionale, anche le seguenti:

  • Dispiegare le Forze armate libanesi (FAL), l'esercito ufficiale dello Stato libanese. Hezbollah è presente in seno al governo libanese e vieterebbe alle Forze armate libanesi di avere il controllo della parte meridionale. Inoltre, gli sciiti bendisposti verso Hezbollah costituiscono metà delle Forze armate libanesi. E per finire, le Forze armate libanesi sono veramente dei dilettanti rispetto a Hezbollah.
  • Dispiegare forze armate siriane. Sia i libanesi che gli israeliani rifiutano un'occupazione siriana del Libano meridionale.
  • Dispiegare forze armate israeliane. Dopo aver occupato zone a maggioranza araba nel 1967 e nel 1982, gli israeliani hanno deciso di non ripetere l'esperienza.

Piuttosto che andare incontro al prevedibile fallimento, occorre sperimentare qualcosa di completamente diverso. Cosa suggerisco? Spostare l'attenzione dal Libano alla Siria e far rilevare a Damasco che è responsabile della violenza Hezbollah. (Incidentalmente, si dà il caso che ciò sia conforme alla Risoluzione 1680 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 17 maggio 2006, che invita la Siria a prendere delle "misure contrarie alla circolazione di armi in territorio libanese".)

Ecco il motivo: i leader israeliani non riescono da tempo a prevenire gli attacchi provenienti dal Libano. Essi hanno stroncato il terrorismo transfrontaliero con altri vicini, rendendo troppo oneroso per i loro governi centrali permettere il proseguo di simili attacchi. Ma quando lo chiesero al governo libanese non ebbero soddisfazione alcuna. In Libano – contrariamente all'Egitto, alla Giordania e alla Siria – non esiste un forte governo centrale che ha un monopolio di forza. Lo Stato del Libano è costantemente debole poiché la sua popolazione giura fedeltà all'una o all'altra delle diciotto comunità etnico-religiose presenti nel paese. Ne consegue che i miliziani, i guerriglieri e i terroristi esercitano una forza maggiore rispetto a quella esercitata dal governo centrale.

Nel corso degli ultimi quarant'anni, i governi israeliani hanno reagito ricorrendo a una vasta gamma di strategie. Nel 1968, i jet militari israeliani bombardarono l'aeroporto di Beirut, senza alcun risultato. Nell'Operazione Litani del 1978, le forze armate israeliane entrarono per la prima volta in Libano su vasta scala, senza alcun successo. Nel 1982, esse conquistarono gran parte del paese, che si dimostrò indifendibile. Fino al 2000, le forze armate israeliane mantennero una zona di sicurezza, che però finì in un improvviso ritiro unilaterale. Evacuare ogni centimetro di territorio libanese nel 2000 non riuscì a prevenire gli attacchi.

A questo punto si dovrebbe dire immediatamente al governo di Bashar al-Assad di sospendere gli approvvigionamenti a Hezbollah e che i futuri atti di violenza sferrati dal Libano meridionale verranno accolti con ciò che il Wall Street Journal definisce come una "offerta che la Siria non può rifiutare" – il che significa che vi sarà una rappresaglia militare. Come spiega David Bedein nelle pagine del Philadelphia Evening Bulletin "per ogni obiettivo colpito su mandato della Siria, Israele sceglierà obiettivi siriani da attaccare". Tali obiettivi potrebbero includere infrastrutture terroristiche, militari e governative.

Questo approccio funzionerà poiché la levatura, la forza e le capacità di Hezbollah dipendono dall'appoggio siriano, tanto diretto quanto indiretto. Visto che il territorio siriano è l'unica strada attraverso cui gli aiuti iraniani raggiungono Hezbollah, focalizzare l'attenzione su Damasco presenta il grande beneficio di limitare l'influenza iraniana al Vicino Oriente.

Questo piano ha i suoi svantaggi e le sue complicazioni – il recente trattato di mutua difesa tra Siria e Iran oppure offrire a Hezbollah l'opzione di trascinare la Siria in guerra – ma io credo che abbia una maggiore possibilità di successo rispetto a qualsiasi alternativa.

Ripensando a come un simile approccio funzionò nel 1998, quando il governo turco esercitò con successo delle pressioni su Damasco affinché non desse più ospitalità a un leader terrorista, lo stratega israeliano Efraim Inbar suggerisce, a ragione, che "è arrivato il momento di parlare turco ai siriani".

da danielpipes.org

venerdì, agosto 18, 2006

Cossiga: Italia orientata a un accordo con Al Qaeda

di Nicholas D. Leone - C’è il rischio di kamikaze col passaporto italiano, avverte Piero Luigi Vigna, ex Procuratore nazionale antimafia, contestando - in un’intervista pubblicata dal Giornale - le misure annunciate dal governo in materia di immigrazione. Non solo: Vigna ricorda che, se finora “ci è andata bene” con i terroristi islamici, che mai hanno colpito in Italia, “questo non autorizza all’ottimismo”. Anche perché “adesso abbiamo un problema in più”. Ovvero: “Il Sismi è in crisi”, dopo i colpi che gli sono stati inferti dalle intercettazioni e dagli arresti. Interpellato dal VELINO, il senatore a vita Francesco Cossiga indica sul filo del paradosso una strada che potrebbe metterci al riparo dalle situazioni di pericolo evidenziate da Vigna. Una strada che le autorità italiane sembrano avere già imboccato: “Credo che siamo orientati a trovare un accordo con Al Qaeda”. Di un simile patto si trovano antecedenti nella storia recente del nostro paese: il presidente emerito della Repubblica accenna agli accordi siglati da Aldo Moro - grazie al lavoro del colonnello del Sismi (e prima ancora del Sid) Stefano Giovannone - con i terroristi palestinesi. “A essi venne data carta bianca in Italia, a condizione che non toccassero il nostro paese”. E la linea del governo in carica pare proprio andare in quella direzione. Come a Cossiga appare chiaro anche alla luce della visita che il ministro degli Esteri Massimo D’Alema farà a Beirut. Il viaggio di D’Alema in Libano - ha rilevato il senatore a vita in una nota diffusa oggi - “vale solo come atto di solidarietà al governo filo-siriano e agli Hezbollah nel quadro della politica antisraeliana del nostro governo. E di questo non può non tenere conto Al Qaeda”.
Quanto all’ipotesi di un vero e proprio accordo con l’organizzazione terroristica guidata da Osama Bin Laden, per Cossiga “Romano Prodi, insieme a D’Alema, avrebbe l’autorevolezza per siglarlo”. D’altra parte, l’Italia è di fronte a un bivio: “O si combatte il terrorismo con i metodi anglo-americani (ma non credo che questo rientri nel programma elettorale dell’Unione), o si scende a patti con esso. Come insegna Sun Tzu, il famoso teorico della guerra, quando non si è in grado - per motivi politici o militari - di combattere il nemico, allora bisogna cercare un accordo. E siccome la situazione politica italiana non permette - a causa della magistratura e di una parte della maggioranza di governo - di combattere il terrorismo islamico estremista, non rimane - continua il senatore a vita con IL VELINO - che la via dell’accordo”. Cossiga abbozza lo schema da sottoporre ai terroristi: “Noi vi diamo l’impunità (la magistratura ha già cominciato a darvela), voi fate sul nostro territorio le basi di missili ed esplosivi e venite a rifugiarvi in Italia. Nessuno vi cercherà”. In cambio non subiremo attentati.
Anche l’indebolimento del Sismi denunciato da Vigna “può essere un titolo che facciamo valere con Al Qaeda”, prosegue Cossiga. “È un ulteriore segnale che mandiamo ai terroristi, ai quali diciamo che non li vogliamo combattere e che non li consideriamo nemici. Tanto è vero che vanno in galera funzionari del servizio segreto militare - del quale non abbiamo bisogno, perché non vogliamo combattere”. A scanso di equivoci, l’Italia sta inviando alla rete di Al Qaeda - conclude il senatore a vita - un messaggio inequivocabile: “Vogliamo arrestare i funzionari della Cia, siamo pronti a contrastare chi vi combatte”.

da Il Velino

giovedì, agosto 17, 2006

L'Italia in prima fila, ma pesano le ambiguità della risoluzione

di Stefano Folli - "La vera guerra in Medio Oriente comincia ora": così scrive sul quotidiano inglese "Independent " un analista serio come Robert Fisk.

Lo scenario descritto è cupo e vede al centro la guerriglia antiisraeliana di Hezbollah che trova nuovo alimento nelle conseguenze del conflitto in corso. In qualche misura l'analisi di Fisk coincide con le suggestioni evocate ieri alla Knesset dal governo israeliano, che non esclude, anzi dà quasi per scontata presto o tardi la ripresa delle ostilità con le formazioni sciite.In questo quadro la decisione dell'Italia di inviare un contingente di soldati nel Libano meridionale è senz'altro "forte e coraggiosa", come ha dettoil presidente americano in una telefonata a Romano Prodi.Coraggiosa e molto tempestiva, perché l'Italia è stata fra i primi paesi ad accreditarsi quale fornitore di truppe. Addirittura il ministro degli Esteri D'Alema ha annunciato che i militari saranno pronti a schierarsi fra due settimane.Tanto zelo si spiega con ragioni politiche, cioè con l'esigenza del governo Prodi di ritagliarsi un profilo internazionale di qualche rilievo. Lo ha spiegato molto bene Franco Venturini sul "Corriere della Sera". In tal senso, la copertura dell'Onu garantisce una cornice senza le frizioni politiche che hanno segnato, per esempio, la nostra presenza in Afghanistan.Una cornice, in altre parole, che si annuncia «bipartisan», almeno secondo le prime impressioni.Come dire che la missione in Libano non incontra perora dissensi importanti a sinistra e promette di raccogliere l'adesione del centrodestra. Per Prodi si delinea un successo politico e di immagine.D'altra parte, il presidente del Consiglio ha fatto bene a chiedere, nella conversazione con Bush, "un mandato chiaro" da parte dell'Onu. Di questa chiarezza finora non c'è traccia. Con quali regole i militari andranno sul terreno? La loro sarà una missione totalmente "di pace", nella quale si accontenteranno di osservare i movimenti sul campo, ovvero si faranno carico diintervenire?In altri termini, quali sono i compiti? C'è la possibilità di dover intervenire con le armi percostringere Hezbollah a ritirarsi? Peace keeping o peace enforcing? È un punto cruciale sul quale permane una forte ambiguità. La stessa ambiguità di cui è intrisa la risoluzione 1701. Non è forse un caso che due paesi importanti come Germania e Turchia, pur favorevoli alla forza multinazionale, abbiano sospeso il loro «sì» definitivo in attesa di maggiori informazioni. Che dovrebbero arrivare, si suppone, da un documento delle Nazioni Unite, forse una nuova risoluzione. Comunque in tempi non brevissimi.Nel frattempo il premier parla di "missione di pace". Ma forse per esserne certi occorrerebbe conoscere il punto di vista del governo libanese, cioè del nostro principale interlocutore. In tutte le sue componenti. Sotto questo aspetto il viaggio a Beirut di D'alema è fondamentale per capire il corso delle cose. Sappiamo per il momento che il governo di Siniora è attraversato da divisioni non di poco conto. Ieri un ministro ha accennato in modo esplicito all'urgenza che Hezbollah "lasci il Sud". Ma un suo collega lo ha di fatto smentito sottolineando che le forze Onu "non vogliono venire in Libano a combattere nessuno". Il rischio è che rimanga un velo di nebbia sulle "regole di ingaggio", mentre i governi, compreso quello italiano,insistono a vedere solo la missione di pace. La realtà potrebbe essere brutale.

da Il sole 24 ore

mercoledì, agosto 16, 2006

La passività dei paesi arabi di fronte al travaglio del Libano

di Giorgio S. Frankel - Nella guerra israeliana in Libano si può vedere il «doloroso parto di un nuovo Medio Oriente», ha detto il segretario di Stato americano Condoleezza Rice, un paio di settimane fa, scioccando mezzo mondo arabo.

Una frase dura e insensibile, ma non un lapsus. L’idea era di lasciare che la guerra compisse il suo corso: «Qualsiasi cosa facciamo, dobbiamo andare avanti verso il nuovo Medio Oriente, e non invece tornare indietro al vecchio». Poi, la Rice ha preso posizioni più caute, favorevoli ad una soluzione diplomatica, e per questo, secondo alcuni, s’è trovata emarginata nell’Amministrazione e in contrasto col presidente George W. Bush jr., che vuole una linea dura e di pieno appoggio a Israele. Per il vice presidente Dick Cheney, leader dei “falchi” di Washington, la guerra Israele-Libano ci dice cos’è l’inizio del XXI secolo.

L’idea americana di creare con la guerra un “Nuovo Medio Oriente” non è nuova. Nel 2003, a Washington, i neocon dicevano che la guerra all’Irak aveva anche lo scopo di «ridisegnare» la carta geo-politica della regione. Oggi, la continua distruzione fisica e sociale dell’Irak, ormai forse irreversibile, e la catastrofe del Libano, sembrano mettere in dubbio il progetto americano di un Nuovo Medio Oriente. Ma le distruzione e le guerre civili non significano necessariamente che il disegno sia fallito. Potrebbero far parte delle varie opzioni strategiche.

A Washington, uno dei neocon più bellicosi, Michael Ledeen, che ha molti fan in Italia, teorizza una strategia americana di «distruzione creativa». Edward Luttwak elogia le guerre civili (nei paesi arabi e islamici) sostenendo che portano alla pace. Reuel Marc Gerecht, dell’American Enterprise Institute, propone per il Medio Oriente una strategia «comunitaria», cioè volta a dividere gli stati arabi e islamici secondo le loro componenti etniche e religiose. Nel 1999, David Wurmser (oggi consigliere di Cheney) teorizzò come obiettivi strategici in Iraq: il suo smembramento in tre stati, l’emergere del potere sciita e la fine dell’identità politica araba. Sulla stessa linea, Robert Satloff ha suggerito di togliere dal lessico diplomatico americano i termini «mondo arabo» e «mondo islamico». Satloff, che dirige il celebre Washington Institute for Near Eastern Policy, un «think tank» filo-israeliano assai influente, ha definito la politica Usa nel Medio Oriente in termini di «instabilità costruttiva». L’anno scorso, egli disse, con notevole preveggenza, che questa politica sarebbe stata presto messa alla prova in Libano e in Siria. E oggi, molti propongono che Israele estenda quanto prima la guerra alla Siria.

A Washington, lo vorrebbero molti neocon, tra cui Irving Kristol, Meyrav Wurmser (del celebre Hudson Institute e moglie di David Wurmser) e il già citato Ledeen, oltre ai principali “falchi” dell’Amministrazione. A Gerusalemme, tra gli altri, lo storico Michael B. Oren, dello Shalem Center (autore di una storia della guerra arabo-israeliana del 1967, pubblicata anche in Italia), e il politologo Efraim Inbar, docente all’Università Bar-Ilan e direttore del Centro per gli studi strategici Begin-Sadat. Inbar ha scritto che per risolvere la crisi libanese bisogna «soggiogare la Siria». Ma la guerra in Libano, con tutte le sue distruzioni, sembra, per Israele, ben più difficile e lenta del previsto.

Una crisi come questa, con la minaccia di estendersi alla Siria e direttamente o indirettamente anche all’Iran, e comunque di destabilizzare buona parte della regione, sembra proprio configurarsi come una crisi di vasta portata, a livello mediorientale e a livello globale. Per ora, tuttavia, c’è da registrare che, nonostante gli interessi strategici in gioco, il sistema globale sembra rassegnato, almeno per ora, a non interferire nelle iniziative americane. Ancor più sorprendente può apparire la sostanziale passività dei paesi arabi di fronte al travaglio del Libano. Il fatto è che il Libano e la Siria (come pure l’Egitto), che fino all’inizio degli anni Settanta erano su una delle principali «linee calde» della strategia globale, oggi sono in posizione quasi periferica. La «linea calda» passa dalle parti dell’Iran, ma ha poco a che fare con le consuete vicende del Medio Oriente, e assai più coi nuovi sviluppi strategici ed energetici connessi all’Asia.

Il Medio Oriente arabo, un tempo politicamente esplosivo, scosso da rivoluzioni e fermenti ideologici, appare ormai spento, privo di forze, minacciato dall’implosione del radicalismo religioso, e strategicamente emarginato. Chiari segni di questa situazione li si è avuti in occasione della guerra americana a Saddam Hussein, e soprattutto dopo l’invasione e la distruzione dell’Iraq, un evento traumatico per l’arabismo politico e vissuto quasi con apatia. Come sembra sia oggi il caso della guerra israeliana in Libano. Dunque, il Medio Oriente è oggi quasi una retrovia rispetto al vero fronte della conflittualità globale d’oggi (l’Iran, l’Asia centrale e la Cina), e che però va in qualche modo «normalizzato» e «stabilizzato».

da Il sole 24 ore

lunedì, agosto 14, 2006

Non c’è deterrente

di Bernard Lewis - Durante la Guerra fredda, entrambi gli schieramenti possedevano armi di distruzione di massa, ma nessuno dei due le ha usate, perché trattenuti da ciò che si definiva il Mad ("mutual assured destruction"), la sicurezza della reciproca distruzione.
La stessa cosa ha senza dubbio impedito il loro utilizzo nel conflitto tra India e Pakistan.
Oggi sembra incombere un nuovo scontro tra un Iran dotato di armi nucleari e i suoi grandi nemici, definiti dal defunto ayatollah Khomeini il "Grande Satana" e il "Piccolo Satana", ossia gli Stati Uniti e Israele. Contro gli Stati Uniti, un attacco nucleare potrebbe essere compiuto con un’azione terroristica, metodo che ha il vantaggio di mantenere nascosta l’identità del mandante. Contro Israele, l’obiettivo è sufficientemente piccolo e vicino da consentire il tentativo di una distruzione totale con un bombardamento diretto. Appare sempre più probabile che gli iraniani hanno o avranno molto presto a disposizione armi nucleari, grazie ai loro programmi di ricerca iniziati circa quindici anni fa, all’aiuto di alcuni vicini compiacenti e a quello dei dittatori della Corea del nord. Il linguaggio impiegato dal presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, sembra dimostrare la realtà e l’imminenza di questa minaccia. Il timore della reciproca distruzione riuscirà a trattenere l’Iran dall’usare le proprie armi nucleari contro gli Stati Uniti o contro Israele?
C’è una differenza sostanziale tra la Repubblica islamica dell’Iran e altri paesi che possiedono armi nucleari: la concezione apocalittica che caratterizza la visione del mondo degli attuali governanti dell’Iran.
Questa concezione, espressa in discorsi, articoli e persino manuali scolastici, influenza le posizioni e le politiche di Ahmadinejad e dei suoi seguaci. Già in passato è apparso chiaro come i terroristi che proclamano di agire in nome dell’islam non si facciano alcuno scrupolo a massacrare altri musulmani. Un esempio illuminante è offerto dall’attentato contro le ambasciate americane in Africa orientale nel 1998, nel quale sono morti pochi diplomatici americani ma un elevato numero di passanti innocenti, molti dei quali musulmani. Nei numerosi attentati terroristici compiuti negli ultimi 15 anni sono morti moltissimi musulmani.
La frase "Allah riconoscerà i suoi" è generalmente usata per spiegare questo apparentemente crudele atteggiamento.
Significa che, mentre gli infedeli (ossia i non musulmani) finiranno giustamente all’inferno, i musulmani saranno spediti direttamente in paradiso.
La ricompensa senza la fatica del martirio secondo questa concezione, gli attentatori stanno in realtà facendo un favore alle loro vittime musulmane, facendo prendere loro una scorciatoia per il paradiso e le sue delizie: la ricompensa senza la fatica del martirio. I manuali scolastici iraniani insegnano ai giovani studenti a essere pronti per uno scontro finale globale contro un malvagio nemico, gli Stati Uniti, e di prepararsi ai privilegi del martirio.
Un attacco diretto contro l’America, sebbene possibile, è meno probabile nell’immediato futuro. Israele è un obiettivo più vicino e più facile, e Ahmadinejad ha già dimostrato di vederla proprio in questo modo. Gli osservatori occidentali penserebbero immediatamente a due possibili forme di deterrenza.
La prima è il fatto che un attacco che spazzasse via Israele distruggerebbe anche i palestinesi. La seconda è che un tale attacco scatenerebbe una devastante rappresaglia da parte di Israele, poiché si può ritenere certo che gli israeliani abbiano già preso tutte le misure necessarie per poter contrattaccare anche nel caso di un olocausto nucleare in Israele.
La prima di queste due forme di deterrenza potrebbe avere effetto con i palestinesi, ma non con i loro fanatici sostenitori del governo iraniano. La seconda, ossia la minaccia di una rappresaglia diretta contro l’Iran, è neutralizzata dall’ideologia del suicidio e del martirio che domina oggi in alcune parti del mondo islamico: un fenomeno che non ha paralleli nelle altre religioni e nemmeno nel passato islamico.
Oggi questa ideologia è diventata ancora più forte perché si è legata a una visione apocalittica.
Nella religione islamica, come anche nel giudaismo e nel cristianesimo, ci sono alcune credenze che riguardano il conflitto cosmico che si aprirà alla fine dei tempi: Gog e Magog, l’anticristo, Armageddon (per i musulmani sciiti, il ritorno dell’imam nascosto); questo conflitto si concluderà con la vittoria delle forze del bene sulle forze del male. Ahmadinejad e i suoi seguaci sono convinti che il momento del conflitto finale sia arrivato, anzi che lo stesso conflitto sia già iniziato.
Forse possiamo persino sapere la data, suggerita da numerosi riferimenti fatti dal presidente iraniano a proposito della risposta finale che darà il 22 agosto sullo sviluppo del programma nucleare iraniano. Quale significato ha la data del 22 agosto? Quest’anno, il 22 agosto corrisponde nel calendario islamico al ventisettesimo giorno del mese di Rajab dell’anno 1427. Questa, secondo la tradizione, è la notte in cui i musulmani commemorano il volo notturno del profeta Maometto sulle ali del cavallo Buraq, prima alla "moschea più lontana" (normalmente identificata con Gerusalemme) e poi al paradiso (cfr. Corano XVII, 1). Questa potrebbe essere considerata la data più appropriata per la fine apocalittica di Israele e se necessario del mondo intero. Non è affatto certo che il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, abbia in mente di scatenare un simile cataclisma proprio il 22 agosto. Ma sarebbe saggio tenere presente questa possibilità. Una frase dell’ayatollah Khomeini, citata sui manuali delle scuole superiori iraniane, è rivelatrice: "Annuncio a tutto il mondo che se i divoratori del mondo (cioè le potenze infedeli, nda) intendono ostacolare la nostra religione, noi ci schiereremo contro tutto il mondo e non ci fermeremo fino a quando non l’avremo distrutto. O diventiamo tutti liberi, oppure procederemo verso la più grande libertà che è offerta dal martirio. In entrambi i casi, la vittoria e il successo sono assicurati".
In un simile contesto, il deterrente che ha funzionato così bene durante la guerra fredda, quello della distruzione reciproca, non servirebbe a niente. Alla fine dei tempi, ci sarà in ogni caso la distruzione generale. Ciò che contà sarà la destinazione: l’inferno per gli infedeli e il paradiso per i credenti. Per chi ha una simile visione del mondo, la sicurezza della reciproca distruzione non è un deterrente.
Anzi, è uno stimolo. Come si può affrontare un tale nemico, con una simile concezione della vita e della morte? Alcune precauzioni immediate sono ovviamente possibili e necessarie. Nel lungo termine, sembrerebbe che la migliore e forse la unica speranza rimasta sia quella di fare leva su tutti i musulmani, iraniani, arabi e di altri paesi che non condividono questa visione apocalittica; che piuttosto si sentono minacciati, almeno e probabilmente, ancora più di noi stessi. Ce ne devono essere molti nelle terre dell’islam, anzi forse sono la maggioranza. Per loro è giunto il momento di salvare il proprio paese, la propria società e la propria religione da questa follia.

da Il Foglio, 9 Agosto 2006

domenica, agosto 13, 2006

Immigrazione, non può essere una scelta unilaterale

di Lino Siciliano - Mohammed Saleem è un pachistano di cinquantacinque anni, vive in Italia da più di dieci. Due mesi fa si è messo in fila alla Prefettura di Brescia con in mano la sua bella pratica compilata per chiedere la cittadinanza italiana. E proprio quando quella pratica -verosimilmente passata di ufficio in ufficio, di timbro in timbro e di firma in firma - stava per completare il suo iter, Mohammed Saleem ha sgozzato la figlia Hina, anni venti, fidanzata con Giuseppe, italiano, e quindi integrata a prescindere dagli uffici della Prefettura, dai timbri e dalle firme. Il padre integrando ha ucciso la figlia proprio perché integrata. Perché non doveva vivere con quell’italiano, perché non volevo che diventasse come le altre di qui, perché le avevo chiesto di cambiare vita e lei non voleva, le parole di Tommaso Labate su ilRiformista ci fanno riflettere e ci fanno capire che per convivere bisogna volerlo in due, non si possono fare scelte unilaterali.

Anche l'immigrazione deve essere una scelta trasversale a tutti i partiti, Londra, Parigi, Madrid o Berlino hanno già capito che il multiculturalismo alla francese o il multietnicismo all'inglese non hanno prodotto l'integrazione agognata anche dopo varie generazioni, anzi i figli rimproverano i padri di essere stati indulgenti con il paese in cui vivono. Un sondaggio chiude ogni discorso di integrazione, per l'80% dei cittadini di origini di paesi in cui vige il corano, si sentono prima musulmani e poi inglesi e per il 51% si dovrebbe adottare la sharia come legge fondamentale con tanti saluti alla democrazia.

Nella civilissima Svizzera si è fatto un referendum per scegliere di accorciare gli anni per diventare cittadino elvetico. La scelta di facilitare l'immigrazione non può essere affidata ai partiti perché l'impatto è sulla popolazione di oggi e di domani: una tale scelta deve essere affidata ai cittadini, solo loro possono decidere su un qualcosa che potenzialmente potrebbe stravolgere la vita di ogni giorno.

L'errore è che si pensa che sotto ogni popolo, grattando, trovi un occidentale. Falso, e se ci fosse bisogno di controprove, il rispetto per le donne è tanto maggiore tanto più una società è evoluta: la ragazza pakistana uccisa dalla famiglia per aver trasgredito la tradizione ha suscitato orrore negli italiani, mentre la comunità pakistana a caldo ha accettato le decisioni del padre come giuste salvo poi ritrattare per un più politicamente corretto "condanniamo". La religione musulmana non ammette che si possano sposare non islamici, quale integrazione può esserci? Quante Hina devono morire per farci riflettere su una coesistenza quantomeno problematica?

In Italia ogni anno arrivano 300.000 immigrati, siamo il secondo Paese al mondo dopo gli Stati Uniti, quindi più di qualsiasi altro Paese europeo. Un referendum è l'unica via possibile e immaginabile, siano gli italiani ad avere l'onere e l'onore di decidere del proprio futuro non come singoli ma come nazione, non può decidere una minoranza estremista e radicale, in questo l'opposizione ha una grave colpa per non schierarsi apertamente e massicciamente.

sabato, agosto 12, 2006

Israele trae la legittimità a esistere non dall’altrui riconoscimento o pelosa carità, ma dalla Legge

di Umberto Silva - Il vino di Cana ora è sangue, Satana sghignazza.
Hezbollah, il partito di Dio, si pavoneggia, applaudito, sulla scena internazionale.
In una mano tiene un missile, nell’altra il corpo di un bambino dilaniato. Ma prima di unirsi al coro di urla contro Israele sarebbe bene ricordarsi che tutti coloro che combattono nel nome di Dio incarnano il fior fiore della milizia infera.
Una vecchia storia: per onorare il Santo Sepolcro appena riconquistato, i crociati di Goffredo di Buglione scannarono trentamila ebrei e altrettanti musulmani. Come pensare di avere a che fare, oggi e allora, con devoti a qualcosa che non sia il nulla? Come dialogare con coloro che hanno una sola idea fissa: distruggere Israele, il pensiero, Dio? I nichilisti sono i kamikaze dell’anima e, poiché è impossibile annientarla, a un certo punto si fanno saltare in aria. Uccidendo l’altro si cerca di nobilitare l’assassinio dell’io. E’ la logica dell’aborto: si uccide per non nascere; nascere è rischioso, dolorosamente gioioso. Ciò detto, è giusto l’intervento di Israele in Libano, questo intervento? Soprattutto: che cosa è in gioco?
Non ho mai conosciuto due umani uguali tra loro, e penso che questo valga anche per gli arabi. Se si crede che siamo fatti con lo stampino, figli del luogo e della tradizione in cui ci troviamo a nascere, meglio andare a puttane e finirla qui di blaterare. Fortunatamente l’esperienza ci dice che ciascuno esiste in un’inarrestabile differenza… persino da sé: a ogni parola pronunciata già non si è più come prima. Quando sento parlare d’identità, la mia mano corre alla pistola. Sospinto da contrastanti pulsioni, sono fiero d’essere un mucchio di gente… con cui mai prenderei un caffè. Sunniti, sciiti, cristiani, ebrei, italiani: illusionismo, allucinazione.
Non c’è popolo, razza, classe, sesso, ma ciascuno esiste, quando esiste, in una solitaria moltitudine. Ogni ostentazione di appartenenza è di comodo: un tornaconto o un alibi. Non c’è ebreo, non c’è arabo e a nessuno la terra è stata promessa, a nessuno donata. Arida la terra dei Padri quand’è fuori del mito, nel realismo. Il diritto si costruisce nell’impresa.
Che ci fanno gli ebrei dalle parti del Giordano? Dissipati i fumi gloriosi del ritorno e della riconquista, appare un paese democratico e pensante, qualcosa di prezioso… in un deserto di schiavitù: dittatori, sceicchi, mullah e prepotenti di ogni tipo tengono uomini e donne prigionieri dell’ottusità, carne da macello.
Un miraggio o un’oasi, Israele? Certo una provocazione. Invidiarla, odiarla, o ammirarla?
A molti la sua voglia di vivere pare eccessiva, la si vorrebbe un tantino più malinconica, sottomessa e spenta; ai governanti di un paese che in cent’anni non è riuscito a debellare la mafia, la camorra e tutto il resto, che ha deciso di conviverci e talvolta lo dice chiaramente, che per catturare un capo mafioso impiega quarant’anni, suona blasfemo l’intervento israeliano in Libano. Ma perché ‘sti ebrei non convivono con le katiushe e con le promesse di morte di Mahmoud Ahmadinejad? Che sarà mai qualche razzo in testa per chi è stato graziato da Auschwitz? Ringrazino la loro buona stella e stiano contenti.
Che cosa farsene dell’amore universale? Partiamo da lì, da Auschwitz. Gli ebrei avevano conosciuto la ferocia dei nazisti, ma anche il disprezzo e la noncuranza dei democratici perfino durante il massacro, e dopo. Che cosa farsene dell’amore universale che improvvisamente li circondò? Trappola infernale, lo rifiutarono preferendo l’onore delle armi. Purtroppo, nella loro ansia di riscatto, di conquistare il rispetto sul campo di battaglia, si trovarono a guerreggiare con un rivale anacronistico, vecchio di tremila anni. Brutto affare un nemico non all’altezza. Finché gli ebrei furono pochi e male armati riuscirono a entusiasmare, ma ben presto i successi d’Israele cominciarono a essere guardati con crescente sospetto e riprovazione. La sedicente coscienza del mondo, l’Europa, non parlò più di gloria ma di sopraffazione. Con questo intervento in Libano ancora una volta Israele sceglie l’inamabilità, suscitando rimbrotti e accuse, mettendo in serio imbarazzo i suoi stessi sostenitori. Lo credo bene: si chiama Libano ma ha anche un altro nome il paese che le bombe colpiscono: Europa.
Ecco il secondo fronte, ecco a chi sono dedicate le bombe libanesi, e all’Onu, a tutti coloro che condannano il nichilismo ma ci convivono e fanno affari. Ancora una volta Israele trae la sua legittimazione a esistere non dall’altrui riconoscimento o pelosa carità, e nemmeno da un arcaico diritto o risarcimento, ma dalla Legge, quella Legge che con forza Israele pone innanzi a coloro che apertamente o subdolamente la trasgrediscono.
Per la paranoia, per il tentativo di fottere l’altro appellandosi a Dio o all’amore universale, la Legge è l’unica cura.
Un eccesso di severità, in quest’ultimo intervento, nell’applicarla? Il genio d’Israele poteva inventarsi qualcos’altro? Forse sì, forse no, cambio idea tre volte il giorno; l’ho scritto poc’anzi: sono un mucchio di gente e non tutta raccomandabile.

da Il Foglio - 10 Agosto 2006

La Prima Internazionale dell’odio

di Magdi Allam - La guerra in Medio Oriente sta consacrando la nascita di un «fronte internazionale antimperialista », formato da gruppi terroristici e Stati islamici, nonché da Paesi sudamericani, europei e asiatici che s’ispirano al comunismo. L’immagine emblematica è di appena due giorni fa, ritrae il presidente venezuelano Hugo Chavez che, abbracciando l’iraniano Mahmud Ahmadinejad all’aeroporto di Teheran il 29 luglio, paragona Israele ad Adolf Hitler sostenendo che «gli ebrei stanno facendo la stessa cosa con i libanesi, uccidendo bambini e centinaia di persone innocenti». E, replicando ad Ahmadinejad che l’ha esaltato come «il nostro fratello combattente », Chavez formula la solenne promessa: «In qualsiasi circostanza saremo accanto alla nazione iraniana. La storia ha dimostrato che quanto più siamo uniti, tanto più possiamo resistere e combattere l’imperialismo ».
Si sta così completando il quadro complesso di una rete di contropotere globalizzato che coniuga il fanatismo religioso islamico con l’odio ideologico comunista contro l’America e Israele. In una prima fase c’è stata la saldatura tra il movimento terroristico islamico sunnita palestinese Hamas e il movimento terroristico islamico sciita libanese dell’Hezbollah, realizzatasi con l’attentato del 12 luglio scorso (8 soldati israeliani uccisi e due rapiti) che ha provocato l’estensione della guerra in Libano, dopo l’iniziale deflagrazione nei territori palestinesi a seguito dell’attentato del 25 giugno (2 soldati israeliani uccisi e uno rapito). In una seconda fase c’è stato l’immediato sostegno dell’Iran e della Siria, confermando il loro ruolo di sponsor del terrore di Hamas e dell’Hezbollah, e rendendo manifesto il rapporto tra burattinai e burattini. In una terza fase c’è stata la discesa in campo di Al Qaeda con il discorso di Ayman Al Zawahiri diffuso il 27 luglio, in cui annunciando che «non possiamo guardare la pioggia di razzi che cade sui fratelli musulmani a Gaza e in Libano e rimanere in silenzio», ha lanciato un appello «ai musulmani di tutto il mondo per combattere e diventare martiri nella guerra contro i sionisti e i crociati». Ebbene ciò ha segnato l’avvio della saldatura tra il terrorismo islamico globalizzato di Al Qaeda, il terrorismo autoctono palestinese e libanese e la strategia del terrore di Iran e Siria.
Infine si sta assistendo alla quarta fase che indica la formazione di un fronte internazionale accomunato dall’ideologia dell’odio e della guerra all’America e a Israele. Ad esso aderiscono tre capi di Stato sudamericani, il venezuelano Hugo Chavez, il cubano Fidel Castro e il boliviano Evo Morales che partecipano a un patto chiamato Alba (Alternativa bolivariana per le Americhe), in chiave anti Stati Uniti. Ricevendo Chavez e Castro a La Paz il 5 gennaio 2006, Morales disse: «Siamo qui per partecipare alla lotta contro il neoliberismo e l’imperialismo. Questo millennio è del popolo, non dell’Impero ». Al che Chavez rispose: «L’asse del male sono Washington e i suoi alleati, che minacciano e uccidono. Noi stiamo formando l’asse del bene, l’asse del secolo nuovo».
A quest’asse aderisce anche il dittatore bielorusso Alexandr Lukashenko, che dopo aver ricevuto negli scorsi giorni Chavez a Minsk, ha elogiato Hitler: «L’ordine tedesco si è sviluppato in secoli, ma sotto Hitler ha raggiunto il suo culmine. Ed è così che io interpreto una repubblica presidenziale e il ruolo di leader». Il fronte internazionale antimperialista include necessariamente il dittatore nordcoreano Kim Jong Il che ha appena minacciato la guerra globale contro gli Stati Uniti.
Dietro le quinte c’è il ruolo ambiguo della Russia di Putin, che ha appena venduto armi per un miliardo di dollari a Chavez, sponsorizza il nucleare iraniano e protegge il regime siriano. E l’Unione Europea da che parte sta? È arrivato il momento della scelta cruciale perché non è immaginabile una politica di equidistanza o equivicinanza tra la nuova centrale dell’odio e del terrore globalizzato e gli alleati tradizionali che, pur sbagliando, stanno reagendo al terrorismo e alla barbarie di chi nega il diritto alla vita e alla libertà di tutti.

da Corriere della Sera, 31 luglio 2006

venerdì, agosto 11, 2006

L'invasione silenziosa

di Lino Siciliano - L'Europa se n'è accorta da tempo: il multiculturalismo è fallito. Così, corre ai ripari. Sì agli immigrati, ma selezionati e integrati.
E' fallito con le banlieue di Parigi, con gli attentati di Londra e di Madrid con il fallito attentato in GB, sì perchè questi eventi sono avvenuti non da persone che provenivano da fuori ma da islamici nati, cresciuti e scolarizzati nei paesi colpiti, ma ancor più ha sconvolto un sondaggio in cui venivano appoggiati, dalla comunità islamica, gli attentati in percentuali che superavano il 20%, contrari erano il 40% e il resto anche se non le appoggiava ma neanche le rinnegava. Ma cosa ancora più grave è che le percentuale maggiori di appoggio si avevano nei paesi in cui si erano varate leggi più favorevoli per gli immigrati. In altre parole, il fenomeno in cui: tanto più pieghi la schiena tanto più strillano.
Ciò che gli occidentali considerano un gesto di buona volontà, i mediorientali lo ritengono spesso un segno di debolezza.
Essere cittadini vuol dire condividere i valori di un Paese e per questo serve tempo, comprendere elementi di civiltà che la storia ha sedimentato nel nostro Paese lentamente e faticosamente.
L'oikofobia, la politica di negazione e umiliazione della cultura europea a favore di quella degli immigrati portata avanti dalle sinistre europee è devastante.
Si continua a strillare che il numero di immigrati è basso rispetto ad altri paesi, circa il 2% ma l'errore che viene fatto è quello di vedere oggi e non domani, nelle nostre scuole il numero dei bambini extracomunitari è pari al 4,1 per cento dell'intera popolazione scolastica: sei volte in più rispetto al 1995.
Questo è il dato significativo, quello che Arafat definiva la "bomba" del ventre delle donne palestinesi.
C'è addirittura chi vuole introdurre il cosiddetto "ius soli". Cioè a dire il diritto per chiunque nasca nel nostro territorio, ad ottenere immediatamente la cittadinanza. Ad oggi, invece, nel nostro Paese vige il cosiddetto "ius sanguinis": ovvero il diritto ad ottenere la cittadinanza italiana per chiunque abbia "sangue italiano", anche se residente all’estero. Lo ius soli è stata abolita in Gran Bretagna e Irlanda e non è presente in altri paesi europei.
Il principio guida dovrà essere: passare dall'immigrazione "subìta" a quella "scelta". A Padova si è dovuto erigere un muro, creando un ghetto per proteggere i cittadini.
E questo con solo il 2%....

giovedì, agosto 10, 2006

Immigrati e violenze Padova alza un muro

di Paolo Beltramin - È tutto di acciaio, è lungo 84 metri e alto tre. Per la giunta padovana di centrosinistra «era l'unica soluzione possibile in tempi brevi». Il governatore del Veneto Giancarlo Galan l'ha paragonato al muro di Berlino. Remo Sernagiotto, capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, lo considera «il simbolo della resa alla delinquenza» in una città diventata la «Beirut dell'Occidente».
Come a Berlino nell'agosto del 1961, gli operai hanno fatto tutto in poche ore. Il «muro di Padova», però, l'avevano voluto con forza gli abitanti della zona di via Anelli. Soprattutto dopo l'ultima notte di guerriglia tra immigrati, il 26 luglio. Nei palazzoni del complesso «Serenissima», cuore del quartiere- ghetto, i controlli stanno aumentando. All'ingresso c'è un posto di blocco fisso della polizia, come un check point. Sul retro la parete d'acciaio ha sostituito la vecchia rete di filo spinato. Qui, attraverso i fori, spacciatori e clienti si scambiavano droga e denaro. Da qui i pusher riuscivano a scappare alla polizia, arrampicandosi sulla rete o bucandola. Paolo Manfrin, portavoce di oltre cinquecento residenti del quartiere, non teme «la militarizzazione della zona». Anzi, «dopo dieci anni passati con la paura di uscire di casa, la militarizzazione è proprio quello che chiediamo».
La barriera è costata al Comune 80 mila euro. Ma non è la spesa a disturbare Galan, che sul tema della sicurezza ha sempre puntato: la sua ultima proposta, datata martedì, è quella di costituire la Regione parte civile in tutti i processi «avviati per fatti commessi dopo la scarcerazione da chi ha beneficiato dell'indulto». Per il governatore il problema è «ideologico»: «Dal muro di Berlino a quello di Padova, la sinistra è così arrogante da concedersi il lusso politico ed etico di costruire un muro per dividere, per separare il bene dal male». Dal Comune Marco Carrai, assessore alla polizia municipale, respinge al mittente: «Sono solo chiacchiere di gente che non ha mai fatto nulla di concreto per risolvere la situazione. Noi almeno ci stiamo provando».
Non tutti, nemmeno nel centrodestra, gridano allo scandalo. «La realtà è che l'idea del muro l'avevo avuta già io, quando ero assessore comunale alla sicurezza — racconta Maurizio Saia, senatore padovano di An —. Era anche scritta nel nostro programma, se fossimo rimasti in Municipio l'avremmo realizzata nei primi cento giorni. Alcuni miei alleati dovrebbero capire che non è obbligatorio attaccare il centrosinistra sempre e su tutto, altrimenti si rischiano brutte figure».
Carrai non approfitta della «sponda da destra», perché «quando si è costretti a fare un intervento come questo, non c'è comunque da festeggiare». In fondo, se i controlli sono aumentati, la sostanza a Padova è ancora la stessa: ieri mattina la polizia ha arrestato tre immigrati in via Anelli. Uno aveva 120 grammi di cocaina. E poco distante, in zona Portello, nella notte un gruppo di magrebini ha lanciato sassi e bottiglie contro alcuni bar. Poco prima uno di loro era stato cacciato da un locale, e così ha chiamato rinforzi.

da Corriere della Sera - 10 agosto 2006

mercoledì, agosto 09, 2006

La bacchetta magica non ha funzionato

di Gianni Riotta - Se qualche lettore si ostina a capire la guerra in Libano senza tifare rauco, eccone le verità nascoste. Tanti reclamavano l'intervento urgente dell'Onu, americani pro Israele e francesi pro Libano mettono a punto, a fatica, una risoluzione, ma la bacchetta magica fa cilecca. Da Beirut il premier Fouad Siniora, sostenuto dalla Lega araba, dice di no, offeso dalla richiesta di ritiro e disarmo per Hezbollah, con Israele autorizzata a restare nel Libano meridionale fino al dispiegamento delle forze di pace. Siniora elogia «la leggendaria resistenza di Hezbollah» contro Israele, dichiarando però che d'ora in avanti «sarà l'esercito libanese a portare le armi». Tradotto dal Mediorientese vuol dire, «Hezbollah incassa la vittoria morale contro Gerusalemme, ma fermati prima che il Paese sia distrutto». Il ministro degli esteri francese Philippe Douste- Blazy (senza offesa, ma la diplomazia di Parigi non sarebbe più ascoltata nell'era di Google se i ministri non avessero sempre nomi da Corte del Re Sole, Douste- Blazy, Galozeau de Villepin, che fine ha fatto la Republique di Saint Just?) è ottimista che i rivali diranno di sì, il premier inglese Tony Blair pronostica invece una seconda risoluzione Onu, per avere in parallelo la ritirata di Israele e il dispiegamento delle forze di pace.

Secondo la rivista «Foreign Policy» ne faranno parte, Egitto e Turchia musulmani, con Francia — «Abbiamo sempre fatto il nostro dovere in Libano» dice sussiegoso a Le Monde il presidente Chirac, trascurando di menzionare gli esiti, non felicissimi di quei doveri —, Germania e Italia. I tedeschi dovranno puntare le armi anche sugli israeliani e soffrono l'handicap psicologico. Per gli italiani soffro io, immagino che i partiti che ci han fatto ritirare dall' Iraq e vorrebbero abbandonare Kabul saranno stavolta per il sì, in odio a Gerusalemme e persuasi di proteggere i poveri libanesi, che piangono settecento morti. Ma quando Hezbollah proverà a forzare i posti di blocco Onu (dico «quando», non «se»), che faranno i nostri? Resistere li esporrà alla carneficina che ha visto centinaia di morti americani e francesi a Beirut 1983. Sono perché l'Italia si impegni, cosciente di andare al fronte, ma detesto l'ipocrisia di chi considera la missione afgana «guerra» e quella libanese «pace» (parlo di lei, dottor Strada).

La tana di vipere che Hezbollah ha aperto con astuzia, rapendo il 12 luglio due riservisti israeliani e uccidendone otto, spargerà a lungo veleni. Mahmoud Ali Suleimani, uno dei miliziani del Partito di Dio che ha preso parte al raid, ha confessato dopo la cattura di essere stato addestrato in Iran, con transito in Siria. Teheran e Damasco sono il capolinea della guerra. La Siria dice — tramite l'ambasciatore all'Onu Imad Moustapha — se Bush ci chiama diamo una mano. Bush non telefona al giovane Bashar al Assad, oftalmologo di corta vista strategica, malgrado gli inviti del New York Times. L'Iran usa Hezbollah come schermo e lavora al suo nucleare. Peter Bouckaert, dell'associazione umanitaria Human Rights Watch, conclude sconsolato «Tutti si vantano di aver ragione e ignorano i propri abusi e violenze».

La pace che auspicano le persone di buona volontà ha bisogno di un accordo tra Israele e Palestina, un'intesa tra Usa ed Europa per governare le crisi, un segretario nuovo alle Nazioni Unite, un negoziato a brutto muso, bastone duro e carota saporita, con la Siria, un contenimento dell' Iran populista di Ahmadinejad e un piano per l'Iraq, dopo le follie di Rumsfeld. Fino ad allora il sospirato cessate il fuoco sarà come il fresco maestrale di agosto, un annunzio di inverno gelato.

da Corriere della Sera, 09 agosto 2006